Come abbiamo abitato in quarantena: un diario (16 marzo-8 maggio 2020)

In un appartamento condiviso, in 35mq, in una casa fuori dal nulla, da soli o in compagnia: comunque “chiusi dentro”. Per due mesi abbiamo raccolto idee, progetti e storie sull’abitare nei giorni del Coronavirus e su cosa succederà dopo.

Alberto Ponis, schizzo di Stazzo Pulcheddu, 1975

Immagine di apertura:  Alberto Ponis, schizzo di Casa Stazzo Pulcheddu, 1975

8 maggio

La fine (un nuovo inizio)

Lunedì 4 maggio, è iniziata la Fase 2. Alle 18:30 stacco da lavoro e vado a fare una passeggiata al Parco Trotter, che finalmente ha riaperto. C’è tanta gente, anche dei ragazzi che giocano a pallone nel piazzale principale. Passa la municipale e li fa smettere. In qualche modo questo diario finisce lì.
Questa nuova fase restituisce alcune libertà, chiude un occhio su altre cose. Non è una vera e propria svolta. Ma sicuramente un allentamento della quarantena lo è. Ci troveremo con un nuovo picco di contagi tra 15 giorni? A giudicare dalle famiglie in giro senza mascherina e dai ragazzi che si scolavano l’ennesimo Negroni tra torri di bicchieri di plastica vuoti, forse sì.
(AS)

Non sono ancora uscita. Tutti continuano a ripetermi “esci, esci che ti farà bene!”: Alessandro, mia mamma, i colleghi, gli amici. In questi primi giorni di Fase 2 ho osservato dal mio balconcino sempre più persone brulicare sui marciapiedi, guidare le loro macchine con la musica a palla, o sulle loro bici con i sacchetti della spesa appesi al manubrio.  
Mi sento come quando, da bambina, mia nonna mi bagnava le gambe e le braccia con l’acqua del mare per farmi prendere confidenza con la sua temperatura, per convincermi poi – finalmente – a farmi il bagno.
Ci mettevo un po’ ma poi finivo per restare in acqua tutto il giorno.  
Presto uscirò e sarà un’altra storia.
(GR)

In questi quasi due mesi abbiamo messo insieme idee, presentato progetti, parlato con persone. Grazie a queste voci, abbiamo raccontato una condizione dell’abitare unica da quando Domus è nata. Ci saranno nuove cose da raccontare, nuove sfide da affrontare. Questo diario si chiude con la fine della quarantena, dell’isolamento. Non sono finite la paura e l’emergenza, ma nemmeno la voglia di costruire un futuro migliore. Per quello, però, serve un altro diario. 
(GR + AS)

7 maggio

Ripartire dalla bellezza

Da quando abitare coincide con l’essere immersi nello smartphone, la casa come dimensione dello spirito è diventata superflua: un luogo che non si presta più né a vivere né a convivere. Forse abitare stanca. Facciamo il vuoto allora, e buttiamo tutti gli oggetti che non accarezziamo più, quelli che non sono partecipi delle nostre lacrime, quelli che non sappiamo da dove provengano anche se ci hanno seguito nei nostri traslochi, quelli che non porteremmo mai nella tomba.
Salviamo solo le cose che ci saranno anche dopo di noi: gli oggetti inevitabili.

Mario Trimarchi, Natura morta con Rodin, 2020
Mario Trimarchi, Natura morta con Rodin, 2020

Attorno a questi potremo ricostruire il senso perduto dell’abitare come mistero della Bellezza, facendo della casa un luogo di contemplazione di una nuova primavera, ripulita dalle polveri sottili dell’amnesia.
Ripartendo dalla Bellezza torneremo ad “abitare poeticamente” e riusciremo così ad affrontare il bradisismo economico e sociale del dopo pandemia con l’animo impercettibilmente più leggero.

Mario Trimarchi è un architetto e designer italiano.

Mario Trimarchi, Natura morta con Rodin, 2020

6 maggio

Alberto Ponis, un archivio di case

Alberto e Annarita si trovano a Palau quando mi rispondono al telefono: lì stanno lavorando alla sistemazione dell’archivio dello studio, un lavoro iniziato ormai quasi 10 anni fa, mi raccontano. Mi portano con loro, in una visita virtuale della casa in cui abitano che è “edificio ai bordi e vuoto dentro”. Una casa che lentamente discende da una corte all’altra, passando per il giardino, scandito in piccoli terrazzamenti popolati dal fico, il rosmarino e il papiro, fino al canneto che anticipa il mare.

Il maestro, genovese di origine e viaggiatore di spirito, approdò in Sardegna dopo gli studi a Firenze e il lavoro da Ernő GoldfingerDenys Lasdun a Londra, negli anni Sessanta. Proprio nella capitale inglese ebbe “una folgorazione per il paesaggio urbano, il rosso squillante delle cassette delle lettere e i portoni delle case blu”. Fu con l’amico artista Enzo Apicella che arrivarono alcune commesse in Sardegna, negli anni del boom edilizio-balneare “arrestatosi troppo tardi”. Dalla prima casa a Palau (pubblicata su Domus n.419, 1964) – dipinta di bianco, colore che non usò mai più in Sardegna – fino a Porto Rafael e Costa Paradiso, sono innumerevoli le case progettate da Alberto e dal suo studio. Qui si sono fermati, realizzando nel tempo un archivio di case e di modi di abitare. Alberto stesso mi dice di sentirsi privilegiato ad esser lì, dato che poco è cambiato per loro: continuano a lavorare all’archivio anche durante il lockdown.
(GR)

Alberto Ponis è architetto, Annarita Zalaffi è ingegnere.

5 maggio

Scarti di un’intervista: Francesco Vezzoli

[Su Instagram] “Cioè io l’ho scollegato perché vedevo gente che postava foto di sé con le chiappe di fuori e diceva “ah che noia la quarantena, ho nostalgia di Ibiza”. Ci farei delle opere concettuali, mettendo da un lato la foto di questa signorina e dall’altra parte la foto del numero dei morti di quel giorno. Non so come una persona come si dice in inglese “in his right state of mind” o “in his right state of heart” possa pensare di postare certe scemenze quando il mondo va a pezzi, quando persino i capi di stato straparlano, quando il primo ministro d’Inghilterra parla di immunità di gregge, quando la regina d’Inghilterra parla allo Stato dopo non averlo fatto per 25 anni, quando Donald Trump dice “iniettatevi l’Amuchina”. Ecco, se tu non trovi di meglio da fare che dire “ho nostalgia di Ibiza” per quanto mi riguarda prendo te, il tuo Instagram e Ibiza, li impacchetto e li butto in fondo al mare.”

Clicca qui per leggere l’intervista su “Love Stories – A Sentimental Survey by Francesco Vezzoli” per Fondazione Prada

[Sulle relazioni amorose] “La pandemia ci forza a riconsiderare i termini del nostro rapporto con i sentimenti. Per dei fatti evidenti: chi è single è molto più solo, chi è in famiglia deve vivere la dimensione famigliare in una maniera molto più coesa. Addirittura nel futuro, finché la situazione rimarrà questa, qualcuno dovrà decidere al massimo di formare un cluster con uno o due amici con i quali si confronta a livello sierologico, per essere sicuri di non farsi male reciprocamente. Quindi diciamo che le declinazioni dell’amore sono tornate ad essere in primo piano perché tutta la fase edonistico-seduttiva, multi-Grinder e multi-Tinder, è andata sullo sfondo. Ora su questi social c’è un disclaimer, “noi continuiamo ad esistere, ma voi siete pregati di non incontrarvi”. È di per sé un’opera d’arte concettuale. Purtroppo qualcuno decide di incontrarsi, queste persone hanno tutto il mio riprovevole sdegno, perché chi mette a rischio la salute delle persone è un criminale.” 
(GR)

Il Coronavirus, al contrario, dovrebbe avere come conseguenza principale l’accelerazione di alcuni mutamenti già in corso

4 maggio

Condominy e le sue stanze dei desideri

Il libro Condominy nasce in un contesto speciale, dal lavoro di un gruppo multidisciplinare – le artiste Cristina Pancini e Paola Gaggiotti con gli architetti casatibuonsante – e i ragazzi del Progetto Giovani del reparto della pediatria oncologica della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. I giovani pazienti, che hanno fra i 16 e i 24 anni, sono costretti all’isolamento dalla loro condizione immunitaria. Assieme al gruppo, hanno dato forma alle loro stanze ideali in un “grande abitare collettivo”: un condominio (virtuale e reale) fatto di immaginari condivisi e scambi virtuali. Ognuno ha disegnato la forma, ha immaginato le azioni e le viste possibili, ha deciso il piano della propria stanza nel condominio. Matteo Davide, uno dei condomini, dice che “è importante imparare a stare solo con te stesso. Scoprirai cose su di te che non sapevi ancora e, se riesci a stare bene con te stesso, ti godi meglio la vita. Questo mi ha insegnato l’isolamento”. Una lettura che potrà insegnarci qualcosa sulla determinazione e la fantasia quando l’isolamento è necessario.

Potete richiedere gratuitamente il pdf del libro attraverso Instagram o mandando una mail condominy@gmail.com. Su YouTube potete ascoltare la playlist di Condominy.
(GR)

1 maggio: la Festa dei lavoratori

Fine. Questa quarantena sembra arrivare a una fine.
Sento amici felici di tornare al lavoro, ascolto le voci di chi si scopre ad aspettare con inedita gioia la settimana lavorativa: un modo per tornare a costruirsi una normalità, qualcosa che sembri una giornata. Un oggi che si proietti nel futuro, come dovrebbero essere tutti gli oggi.
E poi ci sono io. O meglio, e poi ci siamo noi: i lavoratori dello spettacolo. Noi che non sappiamo ancora se il nostro lavoro riprenderà, in che modo riprenderà, quando riprenderà.

Oggi è il primo maggio, è la Festa dei lavoratori. Mi è sempre piaciuta questa giornata, c’era il sole, c’era musica, c’erano amici. Da un po’ mi piace anche l’inizio della nostra Costituzione, “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. In passato detestavo questo inizio, pensavo al lavoro e lo leggevo solo in termini di produttività. Ora invece quell’articolo 1 è diventato per me una fotografia di facce. Di facce che si impegnano, che cercano, che danno un valore alla propria giornata rischiando qualcosa. Investendo tempo, fatica, sudore, dolori. Scelte.

Oggi è il primo maggio e nella fotografia che vedo, la mia faccia non c’è.

Francesco Bressan, attore e performer, si occupa di teatro, drammaturgia e performing art. È parte del duo Bressan/Romondia.

30 aprile

Ripensare l'ingresso in casa, l'ingresso di casa

Lorenzo Sizzi e Müge Yürüten sono due giovani architetti. All'inizio della quarantena hanno deciso di affrontare insieme questo periodo. E si sono accorti che uno dei momenti più stressanti è quello del rientro a casa, perché “la pulizia va fatta non appena varcata la soglia e, soprattutto, non è sufficiente lavare solo le mani”. Da qui nasce In-Soap, un progetto in cui “il sapone stesso diventa uno spazio”, posizionato all'ingresso di casa.

Il progetto si basa su una “buffer zone” divisa in due ambienti. Il primo è protetto da una membrana, mentre il secondo è aperto verso l’interno della casa. Tutto è pensato per adattarsi e cambiare in base al tipo e alle dimensioni dell’ingresso di ogni casa. In-Soap ha partecipato a Fountains of Hygiene, di cui abbiamo parlato qui.
(AS)

29 Aprile

La solitudine dei corpi

“Ti devo portare un libro, vengo venerdì verso le 12. Passo da te andando da casa allo studio” mi dice A. al telefono “a meno che la cosa non ti disturbi”. Gli dico che non c’è problema, lo penso davvero. Aggiungo scherzosamente che “tanto non dobbiamo mica scambiarci effusioni!”. Ridiamo.

Quel venerdì il mio amico A. arriva in bicicletta, ci troviamo davanti al portone di casa mia: io nell’ingresso, lui sul marciapiede. Davanti alla bocca ha la mascherina d’ordinanza. Di solito quando ci vediamo ci diamo due rituali baci sulle guance, ora però risulta evidentemente strano farlo. Entrambi siamo incerti su cosa sia opportuno fare o non fare. Superiamo l’impasse con un pizzico di fatalismo, ovvero imitando lo stesso gesto nell’aria, e scambiandoci un sorriso. Mi racconta del libro e poi ci salutiamo.

Dopo 50 giorni in casa, A. è stata la prima persona che ho visto a una distanza ravvicinata, eccezion fatta per la mia coinquilina. Mi rendo conto che, da 50 giorni, penso al mio portone come a un limite invalicabile. Sono uscita solo un paio di volte per fare la spesa a inizio marzo, poi delivery à gogo. Talvolta quando sono sul mio balcone ho l'impressione che la pelle quasi bruci al contatto con l’aria della città.

È stato bello e strano vedere A., è stata anche la prima volta che mi sono messa alla prova nella gestione della distanza del mio corpo da quello degli altri. Ridefinire una nuova prossemica sarà tutt’altro che scontato.
Ah, i congiunti!
(GR)

28 aprile

Cosa rimarrà della quarantena: un elenco partecipativo

In Italia il 4 maggio era atteso come l'inizio della cosiddetta “fase 2” del lockdown. In realtà, dal numero di libertà che vengono restituite, a molti sembra più una fase uno punto uno; intanto, ho provato a fare un elenco delle cose che ricorderemo e di quelle che sarà meglio non dimenticare di questi giorni terribili e incredibili insieme.

Non è una cosa che si fa da solo. Ho chiesto a un po' di amici e di colleghi di aiutarmi. E vorrei che partecipaste tutti.

1. Le strisce di nastro adesivo fuori e dentro i negozi a segnare la distanza “accettabile” tra le persone;
2. Il concerto di Travis Scott su Fortnite;
3. La foto della manifestazione “socialmente distanziata” in Israele;

 

4. Lavarsi le mani continuamente, fino a rovinartele;
5. Le scarpe lasciate fuori di casa;
6. Quando uscivo a correre e poi l'hanno vietato;
7. La prima settimana tutti sui balconi, poi come se non fossero mai esistiti.
8. Tutte 'ste dirette Instagram, YouTube, streaming, in generale gente che fa dirette tutto il giorno;
9. Le foto di Mattarella e di Papa Francesco;
10. I meme del Coronavirus (“adottata” da Marianna Guernieri);
11. Gli uccelli che cantano come impazziti a tutte le ore del giorno (sempre Marianna);
12. Il pane fatto a casa con il lievito madre, “tormentone” del lockdown (Raffaele Vertaldi);
13. La panchina al sole nel giardino condominiale dove non ero mai andata prima (Loredana Mascheroni);
14. Al supermercato, aprire i sacchetti della verdura indossando guanti e mascherina (sempre Loredana);
15. La colazione ogni mattina, abitudine persa da anni (Romina Totaro);
16. Le macchine parcheggiate ricoperte del polline dei pioppi (sempre Romina);
17. Il silenzio, che di notte sembra di essere in campagna (Simona Bordone);
18. Le pubblicità educative alle fermate degli autobus (Simona);

19. Le mail su Google Classroom per la didattica online di elementari e materna (Giulia Guzzini);
20. I secondi scanditi dalle app per allenarsi in casa (Giulia);
21. I capelli fuori controllo con i barbieri chiusi;
22. Interi fine settimana in due metri quadri di balcone  (Cristina Moro)
23. L'adrenalina del sabato mattina per andare in edicola (Cristina);
24. Le foto dell'uomo che prendeva il sole in spiaggia a Rimini accerchiato dalla polizia (Nicola Peluchetti)

 

25. I “boomer” che si incontrano per ogni cosa su Zoom: gli “zoomer” (Sara Sagrati);
26. @lebimbedigiuseppeconte;
27. Il cielo buio di notte, senza gli aerei di linea (Elena Sommariva);
28. Non poter dire ‘stasera ho un impegno’ o ‘sono a cena’ alle decima telefonata (Annalisa Musso);
29. lo tsunami che è il lavoro da casa (Annalisa).

Vuoi aggiungere una tua cosa alla lista?
Molto volentieri!
Scrivimi su IG @alessandroscarano20 TW @a_scarano oppure scarano@edidomus.it

27 aprile

San Paolo. Un giorno della vita di Marcio Kogan

A Day in the Life – April 18th in the fateful year of 2020, è il titolo (piuttosto beatlesiano) del video che Marcio Kogan realizza per questo Diario. È sabato 18 aprile quando registra le sue azioni e i dettagli del quotidiano, che racconta attraverso la sua voce. Sotto troverete la traduzione in italiano delle sue parole.
(GR)


“L’autunno è arrivato, da un mese sono rinchiuso nel mio appartamento a San Paolo, cercando di non pensare troppo. Cammino su e giù nella terrazza, andando e tornando decine di volte. Studio il pianoforte, dopo 20 anni senza toccare un tasto. In un momento più lirico leggo Le sorelle Makioka, mi alzo dalla poltrona e accendo la TV in cerca di notizie, sempre pessime. Non solo sul virus ma anche sul nostro triste momento politico. Donald Trump dice qualsiasi tipo di sciocchezze e il suo subordinato, l’oscurantista presidente brasiliano, fa un discorso isterico ai suoi seguaci senza cervello e, naturalmente, ai terrapiattisti. Ora appare pulendosi il moccio dal naso prima di stringere la mano a una vecchia signora per le strade della bella Brasilia. Grazie a Dio, Oscar e Lúcio non stanno guardando. È meglio non pensarci più. Potrei perdere la testa. Decido di concedermi un momento di piacere e mi concedo un bicchiere di Coca-Cola con tanto ghiaccio e lime, l’adoro!
È sabato, è ora di pulire. Aspirapolvere dappertutto. Lavoro con il mio studio su un progetto per un po’ di tempo e poi guardo un episodio di ‘The Plot Against America’, che mi ricorda la nostra realtà di oggi. Passo il tempo rivisitando alcuni film di Fellini e guardando un documentario sul genio Miles Davis. Più tardi, un meraviglioso concerto dal vivo: ‘Together at Home’.
Alla fine della giornata, oltre la vasta giungla di cemento, emerge un meraviglioso tramonto. Più che mai: la vita vale la pena di essere vissuta. Stupefacente!”

Marcio Kogan è un architetto brasiliano, fondatore di Studio MK27 con sede a San Paolo.

24 aprile

E la sharing economy?

Esco a fare la spesa e al semaforo su viale Monza, fino a due mesi fa un fiume in piena di automobili, ci siamo solo io e una Enjoy, la Cinquecento rossa simbolo del car-sharing Made in Italy. Arrivo a casa e ricevo una mail con proposta di intervista da Lynx & co, un'azienda auto che utilizza il “modello Netflix” al posto della vendita in concessionario che fa così tanto ventesimo secolo. E i monopattini elettrici di Hellbiz e Lime che fine hanno fatto?

Fino a un attimo prima del Coronavirus, la sharing economy sembrava la base per ridisegnare le nostre vite del futuro, soprattutto in città. Torneremo a condividere dopo il contagio, ci fideremo ancora di Uber o Airbnb? C'è chi dice no. Pensa che questo potrebbe essere invece un nuovo inizio l'esperta di new economy April Rinne. In un lungo articolo su Medium sostiene che sopravviverà la condivisione comunitaria e virtuosa, quella di Airbnb che mette a disposizione le case per il personale medico, e forse non quella dei driver sottopagati.
(AS)

23 aprile

Il tempo della quarantena

Il gruppo di architetti, fotografi e grafici di Fōndaco si divide fra Toronto, Milano e Berlino. Per capire come il ritmo delle loro vite quotidiane si stesse modificando fra lavoro, relax e chiamate, nella settimana dal 24 al 30 marzo hanno raccolto puntualmente i dati sulle loro attività.
Ne è nato così “Il tempo della quarantena”, un data visualisation realizzato a mano, in cui hanno sperimentato trasformando le attività dei singoli in piccoli segni grafici. Questi sembrano quasi appartenere un arcaico alfabeto dimenticato ma, per loro, “l’ispirazione deriva dagli spartiti musicali visivi per Ambient 1: Music for Airports, album di Brian Eno e Robert Wyatt del 1978”. I segni sono distribuiti su un pentagramma che, in realtà, di righe ne ha 7, come 7 sono i membri di Fōndaco.
(GR)

Fōndaco è un gruppo multidisciplinare con sedi a Milano, Toronto e Berlino.

22 aprile

La mia casa, diversa

“La casa dove sono cresciuta è una casa grande, ed è la stessa casa in cui sto vivendo in quarantena. Io, mia madre e mio padre. Le dimensioni e l’organizzazione dell’appartamento permettono di confinarsi nei propri spazi senza per forza interagire. Se dovessi ridisegnare la mia casa oggi, come lo farei? La mia routine si muove tra stanze, porte e finestre, disegnando una pianta del tutto diversa. Ma se la mia casa si è “ristretta”, il mio spazio privato a volte esce dalle pareti. La sera, quando tutti dormono, il portico del condominio è un’estensione di camera mia. E’ il mio vero momento di privacy: lì sono sola”.

Beatrice Balducci è dottoranda in Architettura al Politecnico di Milano, dove si occupa di emergenza e messa in sicurezza.

21 aprile

Cartoline da una Parigi riconquistata dalla natura

Lina è originaria di Beirut, da anni però vive e lavora nella capitale francese, vicino Place de la République. La sua casa e il suo studio distano 2 minuti a piedi l’una dall’altro: “mi sento come stessi facendo da guardia allo studio. È strano, sono comunque sempre molto impegnata, tutto il giorno, anche se tutto sembra fermo”, mi dice. È in quel breve tratto di strada che l’architetta scorge piccoli cambiamenti nel modo in cui la natura si relaziona alla città, così ne ha fatto una serie di illustrazioni.

“Abbiamo sempre imposto un confinamento alle altre specie e ora che siamo noi ad essere confinati, trovo poetico il modo in cui la natura sta riprendendo gli spazi della città”. Parliamo di Parigi e Beirut, della loro radicale diversità, la prima con una tradizione haussmanniana di controllo estremo dell’elemento naturale, mentre la seconda è invece risultato di una cucitura di piani urbanistici diversi, nelle cui crepe si insinuano rovine e natura. Parigi quindi è un punto d’osservazione del tutto eccentrico da cui osservare questa rinegoziazione dello spazio urbano.
Le chiedo come le sue osservazioni influenzeranno la sua architettura: mi dice che negli ultimi decenni l’uomo ha visto la natura più come una minaccia che come un’opportunità, o un campo di apprendimento. Questo può spiegare perché le nostre città sono state costruite in modo aggressivo, incorporandovi un sentimento di violenza. Quello che sta osservando in questi giorni rafforza la sua sensazione che la riconciliazione simbiotica tra la città minerale e quella naturale sia oggi più che mai essenziale.

Lina Ghotmeh è un’architetta franco-libanese, fondatrice di Lina Ghotmeh Architecture. Stone Garden, a Beirut, è stato pubblicato su Domus n.1045.

20 aprile

Un piccolo Grand Tour, ma restando a casa

ArtAway è un progetto che permette di visitare l'Italia, le sue città e il patrimonio artistico, anche durante il lockdown. Lo fa impiegando da un lato gli strumenti Google – Maps, Street View, Arts and Culture – e dall'altro esperti in carne e ossa che guidano i turisti in questo viaggio virtuale. Dietro c'è Video Sound Art, un festival di arte contemporanea che nasce nel 2010, che è anche un centro di produzione. “Abbiamo fatto tutto in 10 giorni”, racconta Laura Lamonea di VSA. “Ci è stato facile perché in parte è un lavoro che facciamo già”.

La creazione dei percorsi, dove si alternano la grande tradizione con riferimenti di nicchia, è stata la parte più lunga, ma più facile, “perché più vicina alla nostra esperienza”, spiega  Laura. Fa l'esempio del tour virtuale di Napoli con un grande del passato, Caravaggio, uno del presente, Anish Kapoor, e il cimitero delle Fontanelle, qualcosa del tutto particolare con la tradizione da parte dei vivi di “adottare” le ossa dei morti.

Ma c'è anche lo spazio per l'inaspettato, come il Chianti, dove le cantine si aprono all'arte contemporanea.

ArtAway nasce dalla proposta di un product manager della Silicon Valley, Paolo Gabriele Falcone. Laura Lamonea racconta di un lavoro serratissimo, in sei persone, tra cui un singolo sviluppatore che ha messo in piedi il sito in poche ore. “Un gruppo di lavoro molto coeso, che è riuscito a tirare fuori il meglio. Anche se ognuno da casa sua”. Ora l'intenzione è quella di portare il progetto, “nato come reazione”, oltre la quarantena.
(AS)

ArtAway è aperto a tutti, su prenotazione. Il sito è artaway.com

17 aprile

Staged promiscuity: la mia cucina è spazio pubblico?

Il privato è politico. Ma siamo ancora sicuri di sapere cos'è pubblico?
La webcam, a suon di lezioni, meeting, conferenze stampa online ha spostato la soglia di “casa”, precipitando un nuovo confine, verticale e orizzontale, in mezzo al nostro privato: una parte dello spazio domestico è diventata spazio pubblico.
Come lo arredo questo spazio? Chi lo arreda soprattutto?
Possiamo pensarci unici progettisti di un nuovo palcoscenico dell'ego, allestire sfondi autocelebrativi: ma anche questo è azione-reazione, risposta a un giudizio che attribuiamo allo spettatore.
È habitat ma soprattutto spazio pubblico, perché è progettato da più progettisti e dalle loro relazioni. È il realm of the in-between di Aldo Van Eyck, oggi”.

Lucia Baima e Giovanni Comoglio sono architetti, Ph.D.; lui è storico dell’architettura e contributor di Domus, lei ricercatrice al Future Urban Legacy Lab, Politecnico di Torino.  

16 aprile

Insegnare architettura online: da Londra alla Calabria

“Pensiamo che le piattaforme digitali che ci permettono di continuare a insegnare funzionino bene per circa 1/3 dei nostri studenti, mentre gli altri 2/3 tornerebbero volentieri in aula” mi dicono Sandra Denicke-Polcher e Jane McAllister via Zoom. Fino a 15 anni fa nella loro scuola si iscrivevano soprattutto studenti che potevano permettersi di essere studenti a tempo pieno. “Ora le cose sono cambiate molto”, dice Jane “la settimana per il nostro studente medio è molto diversa, non devono solo dedicarsi a ricevere un’istruzione, anzi, si destreggiano tra il lavoro e gli studi, tra il guadagnarsi da vivere o l’occuparsi dei loro bambini”. 

Il laboratorio di progettazione raggiunge le case degli studenti: la camera di Paris Horstmann

Il laboratorio di progettazione di Sandra e Jane si concentra sulla rivitalizzazione del paesino di Belmonte Calabro, dove sono state l’ultima volta lo scorso febbraio, appena prima l’esplosione dell’epidemia. Negli anni, per coinvolgere gli studenti di tutta la scuola, hanno fissato una serie di momenti per recarsi a Belmonte e svolgere diverse attività con i residenti, i migranti e una rete di professionisti sostenuti dall’associazione culturale La Rivoluzione delle Seppie.
Come per molti altri, il loro corso è migrato online. Sandra sottolinea che “è una soluzione a una crisi, ma le piattaforme funzionano davvero bene – immaginate se avessimo dovuto fermare le attività!”. Rita Elvira Adamo, che supporta Sandra e Jane, aggiunge che “queste piattaforme danno la possibilità di continuare la formazione ma che gli studenti reagiscono tutti in modo diverso”.

Lo spazio di lavoro di Luca Puzzoni, studente del laboratorio guidato da Sandra e Jane presso The Cass, London Metropolitan University

Come cambia l’insegnamento dell’architettura quando diventa digitale? Materiali come disegni, modelli e bozzetti rendono difficile, se non impossibile, riportare l’esperienza di un laboratorio di progettazione a misura di schermo. Questo diventa particolarmente esplicito a The Cass, scuola nota per il suo approccio pratico, dove la figura dell’architetto non è affatto presa come un deus ex machina: “attiriamo studenti che vogliono imparare attraverso il fare e che sono interessati alla nostra etica sociale”.

Mi raccontano dei loro studenti, di come il gruppo di quest’anno sia affiatato. La maggior parte di loro, mi dicono, dipende dal contatto con i colleghi, una relazione che Sandra e Jane cercano di incoraggiare anche sulle piattaforme online. In aula, lavorano assieme intorno ai loro modelli, che producono e discutono insieme. L’inclusione è un valore che emerge chiaramente dalla nostra conversazione – anche se questa parola non è mai stata pronunciata – e mi dicono che alcuni studenti potrebbero trarre beneficio dalla flessibilità dell’educazione online. “Il digitale ci è molto utile ora ma dovremo stare attenti e cercare di mantenere il contatto fra le persone. Se dovessimo fare una proiezione, una combinazione potrebbe funzionare bene!".

Sandra Denicke-Polcher e Jane McAllister sono titolari dei corsi Undergraduate Studio 3 e Postgraduate Unit 6 alla Sir John Cass School of Art, Architecture and Design della London Metropolitan University.
Rita Elvira Adamo, dottoranda all’Università Mediterranea di Reggio Calabria e supporto al corso di Sandra e Jane, è fondatrice dell’associazione culturale La Rivoluzione delle Seppie.

A casa di Banksy

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. . My wife hates it when I work from home.

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15 aprile

Milano sparita e da ricordare (2020)

Giulia Dal Bon e Camilla Spadaro sono due studentesse dell’Accademia di Brera; la prima studia grafica, la seconda nuove tecnologie dell’arte. Quando ancora la quarantena non era in vigore, ma già si respirava un clima diverso a Milano, hanno deciso di raccontarlo con un progetto che integrasse la documentazione fotografica di quei giorni, rigorosamente in bianco e nero, con disegni realizzati con tecniche digitali. Queste immagini sono il risultato: Una nebbia diversa. 

14 aprile

Casa, studio e ibridi: Messico

Manuel Cervantes ha due studi a Città del Messico, o forse è il caso di dire che il suo studio è diviso in due. Il primo, in termini cronologici, è dedicato più strettamente alla produzione e all’operatività; il secondo, è uno spazio che si trova nella sua casa. È in questo secondo luogo che avvengono le conversazioni con i clienti: per Manuel, condurre queste conversazioni in un luogo domestico è “un modo per permettere al cliente di catturare ciò che facciamo e chi siamo, così come i miei valori e la mia comprensione delle cose”. Questi dialoghi per l’architetto si conducono in un’atmosfera conviviale, talvolta condividendo un pasto o sorseggiando un caffè.
Nel momento in cui in Messico è arrivato il Coronavirus questi incontri sono stati sospesi o trasportati su piattaforme digitali e, dice Manuel, “rendere quest’esperienza di spazio e di incontro attraverso Zoom è chiaramente impossibile”.
(GR)

Manuel Cervantes è titolare dello studio che porta il suo nome, con sede nella capitale messicana.

Casa, studio e ibridi: Italia

Da molti anni vivo un rapporto intenso con la mia casa-studio.
Noi ci assomigliamo molto perché anche lei non riesce a concepire una divisione tra l’architettura e la vita. Tutto deve essere un continuo fluire. Dalla camera da letto una porta conduce direttamente nella sala principale dello studio dove prima della quarantena lavoravano i nostri collaboratori.  Ora loro disegnano da remoto  e la porta rimane sempre aperta e così anche questo ultimo e flebile filtro è svanito.
C’è una foto che ironizza sul mio rapporto con la casa/studio: ci sono io come Monsieur Hulot che vivo in tutti i suoi spazi contemporaneamente.
In questa quarantena, con il lento passare dei giorni, ho avuto l’impressione che la provocazione  della fotografia si evolvesse fino a raggiungere un suggestivo ed inaspettato compimento.
Credo, infatti, che nei prossimi giorni la mia sorte finalmente si compirà e mi trasformerò nella mia casa. In fondo è giusto così. Non è forse il destino del creativo quello di arrivare a coincidersi?
Flaubert ci aveva già avvisati: “Madame Bovary c’est moi”.

Filippo Bricolo è architetto. Fonda Bricolo Falsarella Associati assieme a Francesca Falsarella nel 2003, insegna al Politecnico di Milano, polo di Mantova.

11 aprile, il giorno prima di Pasqua

La morte a distanza

Ogni sera la Protezione Civile dirama di dati del contagio. Lo fa con una tabella primitiva che sembra stampata direttamente da un foglio excel, i dati disposti su colonne distinte con tinte sgargianti. Viene elencato il numero dei ricoverati, quanti in terapia intensiva, poi gli autoisolati e i guariti. Ci sono molti dubbi su quanto questi dati possano essere utili per farci una idea chiara del contagio. E poi il numero dei morti, che secondo un recente studio Istat potrebbero sessere molti di più. Al 10 aprile 2020, in Italia sono ufficialmente decedute a causa del Coronavirus 18.849 persone, secondo la Protezione civile. Di questi, più di 10mila qui in Lombardia.

Uno di loro era mio padre e quello che ascolterete qui sotto è il racconto di come lo spazio che tra noi due è sempre stato altalenante si sia fatto, nel giro di pochissimo, infinito.
(AS)

10 aprile

Gli architetti e i loro figli

Stephanie e Georg sono i fondatori dello studio Davidson Rafailidis, insegnano entrambi all’università – lei design a Toronto, lui architettura a Buffalo – e, oltre che soci, sono una coppia: vivono in un piccolo cottage fuori città con i due figli, Max e Loulou, ancora piccoli.

Stephanie Davidson, giorno 23, collage digitale, 2020. Courtesy Davidson Rafailidis
Stephanie Davidson, giorno 23, collage digitale, 2020. Courtesy Davidson Rafailidis

“Quello che penso, soprattutto come mamma e come donna, è che ho realizzato di aver imparato a ‘essere nell’architettura’ non parlando dei miei figli. Ho davvero imparato a separare l’essere mamma dall’essere architetto ma, in questo momento, è impossibile”. Per questo Stephanie ha iniziato a realizzare una serie di collage in cui rappresenta quel ‘circo’ (come lei stessa lo chiama) che quotidianamente è attorno a lei: “i miei figli mi conoscono solo come mamma”, dice. Loulou e Max si insinuano nel suo lavoro, fra le lezioni online dell’università e il lavoro dello studio. Sono ancora troppo piccoli per realizzare ciò che sta succedendo oggi nel mondo, ammesso che ciò che sta accadendo non lasci tutti disorientati.

Mi racconta che si svegliano allegri ed energici mentre, come a molti accade di questi tempi, loro fanno fatica a dormire nel dover gestire le proprie ansie. Se i due piccoli di casa hanno bisogno di qualcosa, spontaneamente vanno da lei. I collage di Stephanie ritraggono questo scontro fra stati d’animo: i bambini giocano al ritmo del gioco-tormentone “the floor is lava!” fra pezzi d’arredo che lo studio ha progettato e oggetti del loro spazio domestico. Lei invece si ritrae mentre regola i pesi delle linee dei disegni su Rhino o AutoCad, o mentre tiene una lezione online. Mi dice Stephanie “Qualcosa che ci stabilizza un po’ in questo momento davvero instabile è sapere che molte persone si sentono allo stesso modo, anche se tutti noi rispondiamo in modo diverso”.
(GR)

Stephanie Davidson e Georg Rafailidis hanno fondato Davidson Rafailidis nel 2008, si sono incontrati alla AA School of Architecture. Il loro progetto Big Space Little Space verrà pubblicato sul numero di maggio di Domus, n. 1046.

9 aprile

E se coltivassimo il grano in città?

Urban Factory è un progetto speculativo che immagina cosa succederebbe se nelle città fosse reintrodotta la coltivazione– in particolare, quella del grano –, rendendo i centri urbani in qualche modo autosufficienti. È stato immaginato da Teo Sandigliano, un designer freelance, come indagine sul consusmismo. “Sono interessato ai sistemi e non solo al prodotto finito”, spiega il designer originario di Biella.

Il progetto di Urban Factory si articola in tre fasi: la produzione anche autonoma e personale del grano, una parte pubblica di raccolta e una terza che spiega come funziona la coltivazione. Ci sono alcune sofisticatezze, come un sistema Rfid di controllo dei diversi livelli di produzione, in modo da distribuirla al meglio; e un vero e proprio sistema, basato su produzione pubblica e magazzini, in modo che tutti possano avere accesso al raccolto. “Il design si è un po' addormentato”, dice Sandigliano, “servono idee che ci facciano vedere il mondo da un altro punto di vista”. Soprattutto in questo momento, come dice lui, “la soluzione sono nuove prospettive”.
(AS)

Teo Sandigliano è designer e direttore di WeVux

8 aprile

Rito versus consumo

Per Fosbury, la resistenza nello spazio della casa oggi è da attuarsi nei confronti di una omologazione del gusto portata dall’avvento di Ikea e AirBnb. Pensiamo agli influencer che trasmettono dalle loro case o al lavoro che sta dietro alla rappresentazione di un ambiente domestico su Airbnb: se già queste dinamiche rendono la casa un asset in termini di comunicazione, a peggiorare le cose è la condizione di oggi, esacerbata dall’incontrarsi di tutti i piani delle nostre vite nelle nostre case. Ciò determina una sovraesposizione e iper-rappresentazione di questi spazi attraverso contenuti social e videocall, in cui i più o meno (s)conosciuti si affacciano virtualmente nelle nostre case.