Contro le solite foto: 3 nuove fotocamere non convenzionali

In un’epoca dominata da smartphone e AI, tra half-frame digitali, ritorni analogici e formati anomali, tre fotocamere che rimettono in gioco l’idea stessa di scattare.

Dopo anni un po’ noiosi, in cui il mondo delle fotocamere si è adattato all’onda d’urto generata dagli smartphone, ultimamente le cose si sono fatte più divertenti. Sembrava che nessuno volesse più una fotocamera, se non i professionisti. Poi, tutto d’un colpo, Fujifilm lancia una bizzarra ma divertentissima fotocamera digitale half-frame, la mini-camera Kodak fa il tutto esaurito per Natale, una startup lancia una strana fotocamera AI e su Vinted & co la febbre per le digicam non si ferma. Intanto Sony aggiorna la sua blasonata fotocamera con lente fissa 35mm, la RX1R, mentre dopo un decennio Ricoh ha finalmente rinnovato la GR, una compatta molto speciale con una vastissima community che nel tempo è solo cresciuta.

Lomo MC-A sample shot. Coourtesy Lomography

Ma accanto al digitale stanno riaffiorando anche le fotocamere a pellicola. Sembra quasi che la facilità con cui oggi si producono immagini – anche artificiali, con Midjourney e altri strumenti di AI – abbia rilanciato, per paradosso, l’attenzione per l’imperfezione, per i formati anomali, per la sorpresa. Così, accanto alle imperiture usa e getta e a modelli base come la Kodak M38 o la Agfa Vista, arrivano anche nuove fotocamere analogiche dai prezzi importanti: apripista è stata Leica, che ha rilanciato la M6 nel 2022, seguita due anni dopo dalla Rollei 35AF, una fotocamera a pellicola completamente nuova lanciata a oltre 800 euro.

In questo contesto abbiamo selezionato tre fotocamere non convenzionali, capaci di restituire risultati sorprendenti. Pensate come compagne d’avventura per l’inverno e oltre, sono perfette per esplorare città e paesaggi e per scattare in modo diverso dal solito. Una nota: non sono strumenti sempre immediati e potrebbero scoraggiare chi è alle prime armi; tuttavia, tutte possono essere utilizzate anche in modalità automatica, incluse le due analogiche di questa terzina.

Lomo MC-A

Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio la fotografia digitale diventa mainstream, rimpiazzando progressivamente la pellicola. Per reazione, molti appassionati continuano a scattare in analogico, spesso scegliendo macchine divertenti, immediate e poco affidabili, capaci di restituire immagini talvolta orrende, talvolta splendide, ma sempre sorprendenti. Nascono così le toy camera come la Holga o la Diana, oppure la Lomo LC-A, compatta sovietica degli anni Ottanta riscoperta da un gruppo di studenti viennesi e diventata il punto di partenza della lomografia.

Oggi Lomography è un brand strutturato e, forte di oltre trent’anni di esperienza, ha ricreato quella fotocamera aggiornandola: è nata così la MC-A. 


Lo diciamo subito: la MC-A è una fotocamera riuscita. Unisce fotografia analogica e supporto digitale, rendendo accessibili – senza bisogno di modifiche artigianali – molte delle pratiche che hanno costruito l’estetica lomografica: doppie esposizioni, scatti “splittati” utilizzando l’apposito filtro, flash con filtri colorati. A questo si aggiungono strumenti più avanzati, come la priorità di diaframma, la regolazione manuale dei tempi, la compensazione dell’esposizione fino a tre stop, la possibilità di impostare manualmente ISO e messa a fuoco a zone. Anche nel design del corpo macchina, Lomography ci ha preso: anche se non sembra dalle immagini, la MC-A è effettivamente una ristilizzazione della vecchia LC-A e messe accanto le due fotocamere, è evidente che c’è un parentela. Inoltre, l’organizzazione di pulsanti e ghiere è proprio riuscita.

Quella di Lomography è una fotocamera che restituisce la magia dell’analogico senza cadere in un’estetica forzatamente lo‑fi. Anzi, la MC-A valorizza soprattutto le pellicole a colori più sensibili, usate in buone condizioni di luce. Allo stesso tempo integra soluzioni contemporanee, dalla ricarica USB‑C della batteria a un sistema di controllo estremamente flessibile. Può essere uno strumento complesso oppure intuitivo, usato in manuale o lasciato all’automatismo. Ogni combinazione porta a un risultato diverso, ed è proprio qui il suo fascino. Peccato solo che pellicole e sviluppo non costino più come vent’anni fa.

Insta360 Ace Pro 2 con Xplorer Pro

L’impugnatura Xplorer Pro di Insta360 Ace Pro 2. Courtesy Insta360

Uscita da mesi, l’action cam con lenti Leica continua a sorprendere. Anche perché Insta360 ha capito di avere tra le mani un dispositivo potenzialmente ibrido, a metà tra videocamera e fotocamera sperimentale. Dopo il grip in metallo co‑creato con Tilta – uno degli oggetti più interessanti visti negli ultimi anni in ambito tecnologico – il brand spinge ulteriormente in questa direzione con l’Xplorer Pro, un’impugnatura ancora più fotografica, accompagnata dal lancio di una stampante portatile.

Il grip migliora l’autonomia e introduce controlli fisici: un pulsante di scatto, una leva per lo zoom (nel range 1x–2x consentito dalla lente) e una ghiera configurabile per esposizione, modalità o filtri. Tutto è pensato per aumentare il controllo, sia in video sia nello scatto fotografico, con l’idea di produrre immagini da condividere o stampare immediatamente.

È bene chiarirlo: non è una fotocamera che fa anche video, ma un’action cam che può essere usata in modo laterale e sperimentale per ottenere immagini fuori dal consueto. Le lenti aggiuntive – cinematografica o macro, acquistabili a parte – aiutano ad allontanarsi dall’estetica tipica delle action cam, affascinante ma spesso difficile da gestire. In contesti urbani, di viaggio o di esplorazione, può diventare uno strumento curioso e sorprendente. Peccato solo che manchi ancora un moltiplicatore di focale ufficiale: una resa più vicina a un 35mm o 50mm la renderebbe ancora più versatile.

Insta360 conferma il suo interesse per la fotografia con l’arrivo in catalogo di una stampante portatile per foto. Foto courtesy Insta360

Pentax 17

Cosa c’è di attraente in una fotocamera che costa più di 500 euro, scatta su pellicola a mezzo formato, in verticale, e che – nonostante la calotta superiore in magnesio – restituisce un feeling leggermente plastico?

In realtà, parecchie cose. A partire dal corpo, che è una citazione continua della storia Pentax, marchio oggi di proprietà Ricoh e che non lanciava una nuova fotocamera da anni. Il designer Takeo Suzuki riprende la Pentax Auto 110 nella leva di avanzamento, le ottiche DA nella texture del grip, il logo dalla mitologica Pentax 67 e la freccia di riavvolgimento dalla Spotmatic SP. Un lavoro di citazionismo accurato, raccontato anche dal New York Times in una recensione entusiasta.

Pentax 17. Courtesy Pentax

Ma la Pentax 17 non vive solo di nostalgia. Il suo schema di funzionamento è originale e quasi spiazzante. Una rotella consente di selezionare diverse modalità, cosa insolita per una compatta analogica. Non si tratta però di un controllo manuale classico, bensì di una serie di semi‑automatismi che permettono di “giocare” con tempi e aperture senza avere il pieno controllo. Ci sono modalità pensate per la luce naturale e altre che integrano l’uso del flash.

Particolarmente affascinante è la modalità “bokeh”, termine che indica il ritratto con sfondo sfocato, effetto che oggi gli smartphone simulano via software. Su una half‑frame può sembrare un controsenso, ma i risultati sono sorprendentemente convincenti, soprattutto se si considera il formato e l’intento progettuale della fotocamera.

Pentax 17. Courtesy Pentax

Altro dettaglio decisamente analogico: l’obiettivo da 25mm (equivalente a circa un 38mm in pieno formato) non ha autofocus. Si utilizza uno zone focus con numerose opzioni direttamente sull’obiettivo. Il rischio di un risultato impreciso è reale, soprattutto senza conoscere l’apertura esatta del diaframma. Ma è anche parte del gioco. La curva di apprendimento è ripida e chi non ha grande esperienza potrebbe trovarla affascinante ma enigmatica. D’altra parte, è difficile immaginare che venga scelta per comodità.

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