All’inizio degli anni ’50, nel quadrante del centro storico di Milano a sud del Duomo, attorno agli antichi assi di corso di Porta Romana e di corso Italia, le macerie della Seconda Guerra Mondiale stanno rapidamente lasciando spazio alle nuove costruzioni. Sono già stati completati, tra gli altri, i celebri complessi per uffici ed abitazioni di Asnago e Vender (1950-1952) e di Luigi Moretti (1951-1953), eccellenti esempi di due diverse e personali interpretazioni italiane della modernità architettonica.
A poca distanza da entrambi, si apre nel 1951 il cantiere della Torre Velasca, commissionata dalla Società Generale Immobiliare allo studio milanese BBPR, fondato nel 1932 da Gian Luigi Banfi (1910-1945), Lodovico Barbiano di Belgiojoso (1909-2004), Enrico Peressutti (1908-1976) ed Ernesto Nathan Rogers (1909-1969). Terminata nel 1958, la torre è universalmente riconosciuta come un episodio cardine della storia dell’architettura del Novecento, con il quale per molti versi si conclude la parabola del Movimento Moderno.
La Torre Velasca, infatti, non è solo la realizzazione più conosciuta dei BBPR, ma è anche la più fedele trascrizione costruita del pensiero di Ernesto Nathan Rogers, impegnato in quegli anni in un’opera di rielaborazione dei fondamenti teorici della disciplina architettonica. Anche e soprattutto attraverso la sua attività con la rivista Casabella Continuità, di cui è direttore tra il 1953 e il 1965, Rogers introduce nel dibattito architettonico le nozioni inedite di “preesistenza”, “ambiente” e, per l’appunto, “continuità”.
In aperta opposizione con l’idealismo della cultura architettonica italiana dei decenni precedenti, Rogers s’ispira alla fenomenologia del filosofo Enzo Paci per ri-situare l’architettura nel suo contesto e, in senso più ampio, in un continuum storico privo di fratture. Là dove il Movimento Moderno aveva a più riprese dichiarato un’intenzione di rottura con ciò che l’aveva preceduto, Rogers ritrova i legami con il passato, per formulare un’idea di modernità che non è rivoluzione, ma evoluzione.
Così, la Torre Velasca è un progetto schiettamente contemporaneo per dimensioni (un edificio alto 106 metri), struttura (in calcestruzzo, progettata da Arturo Danusso) e funzioni (uffici e residenze, oltre ad alcuni spazi commerciali). Al tempo stesso, la torre s’incarica di riproporre l’“atmosfera” (altro termine cruciale per Rogers) di Milano e di dialogare con i suoi edifici storici, primi tra tutti il Duomo gotico e la torre del Filarete al Castello Sforzesco.
Le successive evoluzioni del progetto mostrano il progressivo traslare da un parallelepipedo semplificato e rivestito di un curtain wall International Style, verso una maggiore articolazione volumetrica e complessità linguistica. Molte delle soluzioni adottate sono chiare evocazioni della Milano antica, e soprattutto medioevale. Lo è, ad esempio, la sagoma “a fungo”, che ha però anche una giustificazione funzionale: il “gambo” ospita gli uffici e il “cappello” gli alloggi, la cui distribuzione necessita di una maggiore profondità del corpo di fabbrica. Guardano al passato di Milano anche i costoloni che percorrono le facciate per trasformarsi in contrafforti aerei, così come la disposizione (apparentemente) irregolare delle aperture e il rivestimento in graniglia di marmo e clinker.
Pochi progetti hanno generato tanti e tali dibattiti quanto la Torre Velasca. Presentata dalla delegazione italiana all’XI CIAM – Congresso Internazionale di Architettura Moderna di Otterlo, nel 1959, suscita l’indignazione di Reyner Banham. The Italian Retreat from Modern Architecture è il titolo dell’articolo, comparso su Architectural Review nell’aprile 1959, con cui il critico britannico condanna tanto l’edificio dei BBPR quanto le sue premesse teoriche, sostenute da Rogers. Fraintesa ed osteggiata (almeno in un primo momento) dalla cultura disciplinare, la Torre Velasca fatica a trovare consensi anche presso il grande pubblico. Malgrado la sua dichiarata volontà di “ambientamento”, per molti decenni è comunemente percepita come uno scempio, e rimane una presenza fissa nelle top-list delle “architetture più brutte del mondo”.
Al di là delle controversie, la rilevanza storica della Torre Velasca è innegabile per almeno due ragioni. Da un lato, la torre e il grattacielo Pirelli di Gio Ponti (1956-1960) hanno incarnato più di ogni altro edificio le due anime della “rinascita” economica e culturale della Milano post-bellica, in bilico tra tradizione locale e slanci cosmopoliti. Dall’altro, è a partire dalla Torre Velasca, e sulla scorta degli scritti di Rogers, che l’architettura italiana si avvia verso la sua stagione post-moderna, che trova nel così detto Neoliberty e nella Tendenza due delle sue espressioni di maggiore interesse.