Bombay Beach Biennale, Slab City e il deserto di Sonora

C’è un luogo in California che unisce un lago tossico, una cittadina autogestita, un festival d’arte indipendente e Hollywood. Quattro ingredienti per la rinascita della città.

Bombay Beach, photo Anya Kaats

Seguendo le riprese di un documentario scopriamo un’America ai margini, immersa nei paesaggi mozzafiato dell’Imperial Valley, a circa un’ora da Palm Springs. Il viaggio ha come destinazione la Bombay Beach Biennale e Slab City, un insediamento informale nel cuore del deserto, abitato da molti burner (gli attivisti del “Burning Man”). Bombay Beach si trova sulle rive del Salton Sea, un lago formatosi meno di 100 anni fa.

Nel 1905 il fiume Colorado esonda a causa di un errore di calcolo degli ingegneri della California Development Company che, per migliorare il sistema d’irrigazione, hanno generato uno dei disastri ambientali meno conosciuti d’America. Nel 1908 nasce il lago artificiale più grande della California (890 kmq), le cui sponde negli anni Cinquanta diventano meta di villeggiatura, amata da Frank Sinatra e dai Beach Boys. Nel tempo, salinità del suolo e pesticidi sterminano gran parte dei pesci; in acqua vengono scaricate tonnellate di alghe tossiche. Le spiagge diventano un ossario a cielo aperto, abbandonato. Bombay Beach è uno dei tanti Census Designated Place: un’area cioè identificata a soli fini statistici. Gli abitanti, circa 300, dai contesti più disparati, hanno storie che spesso parlano di povertà, ma anche di resilienza.

“È stato il buon Dio a portarmi qui” è la risposta di molti, quando spiegano perchè abbiano scelto di vivere a Bombay Beach. C’è chi si è trasferito per curarsi il cancro in Messico a prezzi accessibili, chi ha venduto vacche e maiali per comprare un terreno o chi vuole rifarsi una vita dopo il carcere. Reduci del Vietnam, attivisti religiosi, musicisti e pensionati. Cuore pulsante della città è lo Ski Inn, un bar con le pareti rivestite da migliaia di banconote da un dollaro. È un’America acciaccata, ma combattiva, dove il welfare si rivela in tutta la sua fragilità e tutte le sue contraddizioni.

Brotherjohn Spoon e Joshua Spoon, Elysian Fields, 2018
Il viaggio alla Bombay Beach Biennale è nato per seguire le riprese del film-documentario Elysian Fields, regia di Susanna Della Sala, fotografia di Andrea José di Pasquale. In questo fotogramma, Brotherjohn Spoon and Joshua Spoon, 2018

In questa cittadina del profondo Sud della California, per tre giorni l’anno prende vita un festival eccentrico, sognante ed edonista che, sotto gli occhi divertiti degli abitanti, sconvolge la città con l’arrivo dei ‘radical’ losangelini, accompagnati da artisti, professori di Harvard, UCLA e Columbia, musicisti balcanici, archistar e studenti di architettura. E, ancora, le feste più underground, performer, circensi, cantanti liriche, ballerine dell’Opera di San Francisco, attori e modelle. Gli abitanti scoprono che le vecchie baracche abbandonate possono rinascere in spazi incredibili. “Questo luogo veniva sfruttato in shooting e film soprattutto per il suo potere scenografico e, finite le riprese, spariva tutto”, racconta Tao Ruspoli, il regista italo-americano fondatore della Biennale con Stefan Ashkenazy, proprietario di un Art hotel a Hollywood, e Lily Johnson White, ereditiera della Johnson & Johnson. Il festival nasce per sottolineare le criticità ambientali e contribuire a una rinascita della città, insieme con gli abitanti: il degrado come strumento di rigenerazione attraverso l’arte.

Titolo:
Bombay Beach Biennale
Dove:
Bombay Beach, California
Quando:
Tra marzo e aprile
Curatori:
Tao Ruspoli, Stefan Ashkenazy, Lily Johnson White
Film-documentario:
Elysian Fields
Regia:
Susanna Della Sala
Fotografia:
Andrea José di Pasquale

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