Diorami a Parigi

Al Palais de Tokyo di Parigi, la mostra “Dioramas” – dai primi esemplari del XVIII secolo a quelli degli artisti contemporanei – traccia la storia di uno dei più affascinanti dispositivi della visione.

“Dioramas”, vista della mostra, Palais de Tokyo, 2017
Diversi appunti precedono lo studio sulla nascita della fotografia nei Passages di Parigi di Walter Benjamin. I più precisi e decisamente marxiani riguardano il concetto di fantasmagoria, definita come un bene di consumo nel quale nulla deve più rammentare come esso è nato. Tale bene viene reso magico, dal momento che il lavoro in esso accumulato appare come sovrannaturale e sacro nell’istante medesimo in cui esso non si fa più conoscere come lavoro.
Ecco convocati Theodor Adorno e l’autonomia dell’arte che ha alla sua origine l’occultamento del lavoro. Questa è l’essenza del Diorama, che sia il suo spocchioso recupero contemporaneo o quello degli esordi di Louis Daguerre o Charles Bouton. Trattasi di teatro e sicuramente ai suoi esordi il vero antenato del cinema, poi diventato un sistema di spazializzazione per finzioni di tutti i tipi, dalla lanterna magica fino al 3D. Giunto alla perfezione non è niente più che un dispositivo di incarnazione per realtà lontane, esotismi e virtualità: soggettivazione e packaging della nostra esperienza del mondo. Precursore accertato della virtualità nello spazio / tempo ma comunque solido e preciso utensile per officine culturali e confezione del consumo.

 

Il diorama inteso come tecnica è decisamente un materiale ad alto contenuto ideologico. La mostra “Dioramas”, più panoramica che “dioramica”, che il Palais de Tokyo gli dedica ne ripercorre le tappe con una minuzia puntigliosa. Nella parte introduttiva seduce e immerge nella sua storia dagli inizi nel XVIII secolo fino a oggi e in ogni sala la capacità catartica di queste splendide vetrine, meccanismi di presentazione celebrate poi nei Passages parigini e nell’incedere del voyerismo del flâneur sembrano una realtà aumentata con relativa scoperta di trucchi, effetti e successive invenzioni da teatro di automi e marionette. Siano esse scenografiche o puramente contemplative. È un universo di tecnici delle luci, scultori, botanici, modellisti, pittori, carpentieri ma soprattutto di sceneggiatori. La finzione e la capacità di raccontare storie sono centrali nella strategia del diorama.

“Dioramas”, vista della mostra, Palais de Tokyo, 2017. Mathieu Mercier
“Dioramas”, vista della mostra, Palais de Tokyo, 2017. Mathieu Mercier, Sans titre (couple d’axolotls), 2012. Courtesy l’artista & le Crédac

Tuttavia l’influenza sulle strategie museali ed espositive dell’arte contemporanea potrebbe anche eclissarsi se la sola idea alla base della mostra fosse quella di riassumerli, i diorami, nella pura critica all’idea del mostrare. Peccato che il punto di arrivo dei diorami contemporanei sia quello descritto con meno attenzione, in questa pur bella esposizione.

C’è sicuramente un assommarsi della quantità dei dispositivi ed effetti di realtà che, dal feticcio all’immagine, ne ridefiniscono il risultato storiografico. La mostra è splendida sul piano della ricerca ma si inabissa quando i suoi effimeri paesaggi lambiscono il territorio d’approdo della contemporaneità.  

Concretamente il diorama/scatolone di Kiefer è decisamente inferiore alla sua capacità di coinvolgimento dello spettatore, ma è più che naturale che il romanticismo di tutta la sua pittura “dioramatica” venga celebrata nell’imprecisione della grande Hall of Dioramas, che chiude la mostra. L’iperrealismo di Duane Hanson, o le immagini proiettate della scena finale del film The Truman Show chiudono un gioco di campionamenti successivi, alcuni davvero malamente commissionati al punto da depotenziare gli artisti che si suppone avessero fatto del diorama il loro marchio di fabbrica.

È il caso di Mark Dion di cui è innegabile l’apporto all’idea di creazione di archivi sensibili e grande esploratore delle forme museali e della retorica dei dispositivi museali. Qui con il suo Paris Streetscape si prodiga in un’immagine decisamente trash dell’idea stessa dell’esserci qui; ed è proprio perché la mostra celebra esclusivamente l’aspetto illusionistico della sua ricerca. Se tutta la prima parte che include presepi napoletani, estasi di Maddalene penitenti come quella di Caterina de Julianis del 1717 e prelievi da musei etnografici è davvero imperdibile – tanta è la nostalgia per il vecchio Musée de l’Homme – il team curatoriale è intento a tracciare solo una storia materiale del diorama. Lo fa attraverso splendidi esempi, come lo è l’estetica del tardo Ottocento con le tassidermie di Rowland Ward o Carl Akeley. Si entra prepotentemente nel gioco conflittuale dell’antitesi tra realtà e finzione. Ancora meglio nell’idea di forgiare attraverso il falso, il simulacro dell’idea dell’autenticità. Anche solo un mozzicone dell’ultima forzatura di Damien Hirst a Palazzo Grassi sarebbe stata più esplicativa.

Ecco quindi riapparire la nozione di fantasmagoria di cui sopra: è la rimozione del lavoro, a rendere intelligibile il contenuto fantasmagorico del gesto artistico nella sua relazione con il capitalismo avanzato. La splendida serie fotografica di Richard Barnes dedicata alla manutenzione di grandi e piccoli diorami di tutto il mondo così come l’elegantissimo lavoro di Mathieu Mercier, un senza titolo nel quale una coppia di axolotis nuota elegantemente in un acquario minimalista ne sono l’esempio più concreto. È solo in un momento preciso e nell’occhio, addomesticato, del pubblico che l’epifania si realizza.

© riproduzione riservata

Ultimi articoli di Arte

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram