Bjarke Ingels: perché il futuro dell’architettura ha bisogno delle piante

Il numero di settembre del guest editor Bjarke Ingels è un manifesto per un’architettura che non si limita a costruire, ma cresce. Un invito a rompere l’asfalto per far spazio a un nuovo ecosistema urbano, fatto di biodiversità, materiali viventi e coabitazione interspecie.

In tutte le religioni c’è un’immagine del giardino sacro: Eden, Jannah, Nandanavana, Pairidaēza. Lo scopo dell’architettura è creare ombra, un riparo nei confronti della natura selvatica e tutelare la proprietà. Pensiamo ai giardini d’acqua islamici, al patio mediterraneo, alla corte urbana o al terrazzo sul tetto modernista. Se l’architettura ci ha fatto uscire dal nostro habitat naturale, la progettazione del paesaggio ce l’ha restituito.

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  

Little Island

Foto Michael Grimm.  


Sono cresciuto in una casa minuscola con un bel giardino. Come l’abitazione inclusa nel set Lego n. 345, era un contenitore rettangolare con tetto piano, soffitti bassi e grandi finestre. Quel che ne faceva un luogo straordinario erano il giardino, il lago e il bosco attorno: l’esplosione della natura, i bucaneve, l’erba miseria, la betulla, il capriolo, gli anatroccoli, gli scoiattoli e i cigni. Perdevo spesso le chiavi e, quando tornavo da scuola prima degli altri, ero costretto a passare i pomeriggi nel giardino o sul tetto. Durante l’infanzia, la mia casa fu il Louisiana Museum of Contemporary Art, uno dei musei più belli al mondo: piccoli edifici di mattoni chiari con tetti di legno, collegati da percorsi vetrati che attraversano un giardino che lascia a bocca aperta. La disposizione irregolare era dettata da querce e salici antichi, una specie di rete di padiglioni collegati tra di loro in un parco. Piante e arte ovunque. Una vera e propria realizzazione del sogno modernista di sfumare i confini tra interno ed esterno. 

Scoprii i giardini giapponesi grazie ad Akira Kurosawa. Piccoli ecosistemi costruiti dall’uomo, completi di corsi d’acqua ben orchestrati, percorsi su pietre, muschio. Paesaggi apparentemente selvatici, ma palesemente orchestrati. 

Photo Ashley Cooper Pics/Alamy Stock Photos

Agli inizi dei miei studi universitari mi chiedevo come mai l’architettura moderna fosse tanto noiosa, mentre i paesaggi erano così ricchi di fantasia. L’austerità della National Bank of Denmark di Arne Jacobsen (1971) era compensata dal colore e dalla bellezza delle piante sospese nei pozzi di luce vetrati.

Mentre gli edifici modernisti danesi tendevano a essere puri e semplici derivati dello Stile Internazionale o adattamenti locali di un regionalismo critico, i giardini di Carl Theodor Sørensen erano astrazioni espressive. Si pensi ai lotti ovali di Nærum (1948) o i giardini geometrici di Herning (1956), che sciolgono il piano generale in grafica astratta d’avanguardia. All’università di Aarhus, l’architettura è quasi ridotta a una muraglia abitabile di edifici intorno al nucleo centrale del parco di Sørensen (1933).

Con mia grande sorpresa, nel mio primo viaggio a Brasilia il protagonista non fu il Modernismo espressivo di Oscar Niemeyer, ma i giardini tropicali indigeni di Roberto Burle Marx. Il che mi spinse a un pellegrinaggio al suo giardino personale (1949) fuori Rio de Janeiro: una delle esperienze architettoniche più forti che io abbia mai vissuto. Burle Marx si è tanto affrancato dai paesaggi coloniali dominati da specie europee da compiere spedizioni di raccolta in Amazzonia per riportare nel proprio giardino specie tropicali non catalogate e trascurate. Per metà paradiso, per metà vivaio, il Sítio Roberto Burle Marx a Rio è forse uno dei luoghi più ricchi e biodiversi che io abbia mai visitato. 

Terreform One, Fab Tree Hab, New York, 2002 - in corso Credits: Terreform One, Mitchell Joachim

Terreform One, Fab Tree Hab, New York, 2002 - in corso Credits: Terreform One, Mitchell Joachim

Terreform One, Fab Tree Hab, New York, 2002 - in corso Credits: Terreform One, Mitchell Joachim

Terreform One, Fab Tree Hab, New York, 2002 - in corso Credits: Terreform One, Mitchell Joachim

Terreform One, Fab Tree Hab, New York, 2002 - in corso Credits: Terreform One, Mitchell Joachim


Benché noi architetti tendiamo a mettere il paesaggio in secondo piano, se guardiamo dal finestrino dell’aereo esso è onnipresente: i tracciati artificiali delle risaie asiatiche, le striature multicolori alla Gerhard Richter dei campi di tulipani olandesi, la distesa di diagrammi di Voronoi delle coltivazioni di cereali in tutta Europa oppure le astrazioni cartesiane dei campi di granoturco dell’Iowa. A New York, gli interventi più rivoluzionari sono stati la High Line (2009), la Manhattan Waterfront Greenway (in fase di completamento), Little Island (2021), il Domino (2018) e i parchi del ponte di Brooklyn (2010). L’invasione da parte di Piet Outdolf dei binari ferroviari dismessi di Chelsea con specie autoctone della flora newyorkese significa, alla Burle Marx, nutrire siti industriali troppo sviluppati per dare significato alla banalità. In una città di vetro e acciaio, la trasformazione più radicale non è costruita, ma cresce con le piante. 

Il nostro primo contributo al profilo urbano di Manhattan, il Courtscraper (2016), trae la sua forma dall’intento di scavare un’oasi di verde nel cuore degli isolati. A Copenaghen, il complesso residenziale Mountain (2008) è un parcheggio coperto da abitazioni con giardino. La 8 House (2010) fa salire un filo di perle fatto di residenze dalla strada alla cima dell’edificio mentre CopenHill (2019) è una centrale elettrica rivestita da 150 differenti specie vegetali autoctone, che ne fanno un versante montano artificiale adatto alle escursioni e allo sci. Se l’architettura modernista cercava di eliminare la distinzione tra interno ed esterno, gli ultimi decenni hanno tentato di riportare le qualità del paesaggio dentro lo spazio urbano. Il consueto sistema dei marciapiedi è stato sostituito dal respiro di materiali viventi, alberi che spuntano dalle crepe del cemento.

Photo David Van Driessche/Alamy Stock Photo

In questo numero, dedicato all’arte e all’artigianato del materiale vivente, nella sua rassegna di pratiche autoctone Julia Watson parla di architettura di paesaggio senza paesaggisti. Stefano Boeri innalza il paesaggio nella dimensione verticale della città. Ben Lamm contribuisce al progresso della bioingegneria con microorganismi in grado di sciogliere la plastica o riporta in vita lupi estinti. In Svezia, Vandalorum, Piet Oudolf colloca le piante in amichevole prossimità, come si farebbe con l’assegnazione dei posti per una cena. VTN Architects decora il suo Urban Farming Office con una facciata di verde edibile, Field Operations colloca sopra la galleria dell’autostrada di Presidio un paesaggio litoraneo artificiale. A Holbox, Nômade trasforma i corridoi dell’albergo in giardini tropicali. Studio Duyang crea un rilievo di paglia terapeutico, mentre Atelier Faber usa fasci di canne come mattoni per la parete circolare del Rausa Pavilion. Andrew Zuckerman richiama la nostra attenzione sulla diversità morfologica della microfauna con i suoi ritratti di insetti a dimensione umana. 

Nongzao coltiva micelio plasmato in oggetti quotidiani di plastica, e Thomas Takada studia la bellezza delle stagioni con i suoi paralumi di foglie decidue. Azuma Makoto conduce l’effimera bellezza della composizione floreale in un’odissea estrema, dall’Artico allo spazio. I Broken Landscape di Antti Laitinen sono lacune di un collage create nella nuda natura nordica. Fabian Knecht porta Maometto alla montagna con la sua serie Isolation, costruendo l’architettura di una galleria d’arte dentro e intorno alla natura che vuole esporre. Ackroyd & Harvey usano la sensibilità alla luce della clorofilla per coltivare prati e costruire un immaginario di gamme di verde.

CopenHill di BIG L’Amager Resource Center a Copenaghen (2017). Sorge su un’area industriale che è diventata meta per amanti degli sport. Ha in parte sostituito il vicino vecchio impianto di incenerimento di Amager, in fase di conversione da carbone a biomassa (atteso per il 2020).

Foto Rasmus Hjortshøj

CopenHill di BIG Fase di test della pista.  

Foto Rasmus Hjortshøj

CopenHill di BIG Copenhagen e i suoi canali con CopenHill sul fondo.   

Foto Rasmus Hjortshøj

CopenHill di BIG Planimetria generale.  


Mitchell Joachim considera i grilli come committenti, le alghe come banche dati e le forme di micelio come sistemi strutturali nella sua analisi dell’ibrido ossimoro di natura e tecnologia. Infine, Günther Vogt ci mostra il paesaggio come coabitazione interspecie a ogni scala, concentrandosi sul cambiamento del paesaggio svizzero. I ghiacciai si sciolgono nel fondovalle a formare dei laghi e, mentre le città pavimentate di pietra come Parigi si fanno troppo calde per abitarci, chiome d’alberi e terre umide diventano i materiali con cui si può rispondere all’evoluzione delle condizioni climatiche. Se la città è stata inventata per rendere più abitabile il paesaggio, oggi dobbiamo tornare a quest’ulyimo per renderla di nuovo abitabile. 

Lo slogan di lotta della rivolta studentesca parigina del 1968 ci ricordava la spiaggia che dorme sotto l’acciottolato, in un’aspirazione a liberarsi dalle strutture restrittive e a ritornare a stili di vita più naturali e gioiosi. Mezzo secolo dopo, di fronte al cambiamento climatico, è tempo di mandare ancora una volta in frantumi il cemento. Questa volta per fare spazio a un ambiente abitabile umano di ombra rinfrescante e umidità naturale. Sous les pavés, les plantes. 

Immagine di apertura: Thomas Heatherwick and Signe Nielson, Little Island, New York, Stati Uniti, 2021. Photos Michael Grimm