Corpi, design, potere: perché il cinema di David Cronenberg è ancora così attuale

Tra biologie mutanti e architetture brutaliste, realtà virtuali ed estetica della violenza, vi raccontiamo il cinema dell’autore canadese, tra architetture del corpo e cartografie dell’incubo, dagli esordi degli anni ’70 a The Shrouds.

di Ramona Ponzini

Il cinema di David Cronenberg è un viaggio in territori incerti, un’esplorazione della carne, della mente e dello spazio che le ospita. I suoi film si muovono lungo una geografia instabile, dove architetture brutaliste si trasformano in incubatrici del contagio, le macchine diventano estensioni erotiche del corpo, la città è un labirinto di alienazione e la pelle un confine da oltrepassare. Se l’orrore è spesso associato all’irrazionale, Cronenberg lo affronta con chirurgica lucidità: la mutazione, la malattia, la fusione uomo-macchina non sono aberrazioni, ma nuove forme di esistenza.

Possiamo leggere la sua filmografia attraverso cinque grandi paesaggi estetico-concettuali. Negli anni ’70, l’orrore brutalista di Il demone sotto la pelleRabid e Brood trasforma il corpo in un virus architettonico, una minaccia biologica che contamina lo spazio e l’individuo. Negli anni ’80 e ’90, il design industriale di VideodromeInseparabiliCrash ed eXistenZ reinventa il rapporto tra carne, tecnologia e desiderio, creando un’estetica biomeccanica che fonde l’umano con l’artificiale. Nei 2000, con A History of Violence e La promessa dell’assassino, il suo sguardo si sposta sulla città e sulla provincia, esplorando la violenza come architettura sociale.

Il decennio successivo si sdoppia tra le due metropoli per eccellenza: Cosmopolis e Maps to the Stars disegnano il duello tra New York e Los Angeles, tra il capitalismo ipercontrollato e il delirio narcisistico dell’industria hollywoodiana. Infine, negli anni ’20, con Crimes of the Future (2022) e l’ultimo The Shrouds (2024) il regista canadese ritorna alla carne, chiudendo il cerchio in un requiem biomeccanico sulla mutazione dell’arte e del corpo.

David Cronenberg, La Mosca, 1986

1. Il corpo come infezione architettonica

Il primo Cronenberg nasce all’ombra del cemento armato, tra le geometrie spietate del brutalismo e le superfici asettiche di un futuro che puzza di decomposizione. Film come Il demone sotto la pelle (1975), Rabid (1977), Brood (1979) e il primo Crimes of the Future (1970), incarnano un orrore biologico che è, prima di tutto, spaziale. Qui l’architettura non funge da semplice sfondo, ma si configura come organismo vivo, un corpo in cui si insinua la malattia, il contagio, l’anomalia genetica.

Nel brutalismo dei complessi residenziali e dei centri medici avveniristici si annida la promessa di una razionalità moderna, subito corrotta da pulsioni irrefrenabili. In Il demone sotto la pelle, la Starliner Tower (ovvero l’Hi-rise n.3 di Mies van der Rohe a Nun’s Island, Montreal) è una cittadella utopica che diventa laboratorio del desiderio primordiale, invasa da parassiti che trasformano i residenti in esseri sessualmente voraci. In Rabid, l’infezione si diffonde oltre le mura, contaminando la città come un morbo inarrestabile. Mentre in Brood il corpo, incubatore di violenza, porta questa logica all’estremo.

David Cronenberg, Il demone sotto la pelle, 1975

L’influenza dell’architettura brutalista in questi film non è solo estetica, ma concettuale. La freddezza geometrica degli spazi, la loro pretesa di controllo e funzionalità, si scontra con la carne in rivolta. Cronenberg smaschera l’illusione della modernità: il progresso non è razionale, ma istintivo, organico, imprevedibile. Questa tensione tra struttura e disgregazione trova un primo manifesto nel Crimes of the Future del 1970, in cui il mondo, a causa di una epidemia che ha estinto la popolazione femminile, è abitato da soli uomini. Qui, la distorsione del corpo è anche una distorsione del linguaggio cinematografico, fatto di narrazione frammentata e spazi claustrofobici.

Questa prima stagione del cinema di Cronenberg pone le basi per tutta la sua poetica futura: il corpo è un’architettura fragile, la città un organismo infetto, l’identità un processo mutante. Il brutalismo, con le sue linee rigide e le sue superfici spoglie, diventa il guscio che si crepa, rivelando l’orrore della carne sotto la geometria.

Cronenberg costruisce il film attorno a una tensione architettonica: la provincia è uno spazio lineare, fatto di ambienti caldi e accoglienti. La violenza è un corpo estraneo che irrompe in questo equilibrio, rivelando la natura fittizia del sogno americano.

2. Design, macchine e videogame

David Cronenberg, Crash, 1996

Negli anni ’80 e ’90, Cronenberg abbandona l’architettura imponente e razionalista per immergersi in un’estetica fluida e ibrida, dove il design è sempre ambiguo: attraente e disturbante, erotico e mostruoso. Se nei suoi primi lavori l’orrore nasceva dalla carne in rivolta, ora il corpo si fonde con il dispositivo, trasformandosi in interfaccia, estensione, simulacro. Il desiderio si coagula nel metallo, il videogioco si innesta nella carne, il bisturi diventa feticcio. La tecnologia non è più strumento, ma carne.

Con Videodrome (1983), Cronenberg inaugura la stagione del corpo-mediato, dove la tecnologia non è più un’entità esterna, ma una mutazione organica. Il protagonista Max Renn (James Woods) è un produttore televisivo ossessionato dalla ricerca di contenuti estremi, finché non incappa in una trasmissione pirata che non è solo intrattenimento, ma un virus capace di alterare la percezione e riscrivere la carne. L’inserimento di videocassette all’interno di un’apertura carnosa nello stomaco, la fusione tra schermo ed epidermide, il corpo che diventa un medium malleabile: tutto in Videodrome anticipa il discorso sulla realtà virtuale e sull’ibridazione uomo-tecnologia, sviluppato nei decenni successivi. Il design degli oggetti – televisori pulsanti, pistole biomeccaniche, schermi organici – suggerisce un’estetica in cui l’elettronica si deforma, perde rigidità e diventa un prolungamento corporeo.

David Cronenberg, Videodrome, 1983

Se Videodrome esplora la fusione tra carne e immagine, Inseparabili (1988) si addentra nella simbiosi tra identità e oggetto. La storia dei gemelli Mantle (Jeremy Irons), ginecologi specialisti in fertilità, è un’indagine sulla doppiezza, sulla perdita dell’individualità e sulla mutazione degli strumenti medici in protesi perverse. Gli strumenti ginecologici creati dai Mantle, con il loro design alieno, sembrano usciti da un incubo biomeccanico di H.R. Giger: forme eleganti e letali, dispositivi che non curano, ma trasformano. Qui il design diventa un’estensione psicotica del desiderio, il punto d’incontro tra precisione chirurgica e delirio corporeo.

In Crash (1996), Cronenberg porta l’estetica del corpo-macchina all’estremo. Tratto dal romanzo di J.G. Ballard, il film esplora la fusione tra carne e metallo attraverso l’erotizzazione dell’incidente automobilistico. Le carrozzerie sventrate, le cicatrici sui corpi, i dettagli delle cinture di sicurezza che premono sulla pelle: tutto in Crash trasforma il veicolo in un’estensione del desiderio, un feticcio che amplifica la sessualità fino a renderla indistinguibile dalla violenza. Il design dell’automobile, con le sue curve lucide e le sue superfici levigate, si sovrappone alla fisicità umana, mentre la cicatrice diventa un nuovo codice estetico.

David Cronenberg, Crash, 1996

Se Crash unisce il corpo al metallo, eXistenZ (1999) lo unisce al virtuale. Il film si muove in un universo dominato dai videogiochi biologici, in cui la realtà è liquida e la tecnologia si è fatta organica. Le console di eXistenZ non sono oggetti di plastica e circuiti, ma creature pulsanti, membrane umide collegate direttamente alla spina dorsale tramite porte bioelettriche. La distinzione tra gioco e realtà si dissolve in un loop percettivo che riflette la paura della simulazione totale, dove il corpo è supporto per l’esperienza. Il design di eXistenZ è fondamentale per il suo impatto: le console sembrano esseri viventi, i controller sono escrescenze molli, i tasti reagiscono come tessuti nervosi.

3. La violenza come architettura del potere

Nei film di Cronenberg degli anni 2000, la mutazione non è più fisica, ma sociale. L’identità si trasforma nel momento in cui è esposta alla violenza, che contamina l’individuo e ne riscrive il ruolo. Il contrasto tra provincia e città diventa la chiave per analizzare la costruzione dell’individuo e il fragile equilibrio tra normalità e brutalità: la prima finge di essere immune al male, la seconda lo codifica in strutture di potere. In entrambi i casi, la violenza si configura come linguaggio universale. 

In A History of Violence (2005), la provincia americana è un’utopia fragile, una bolla di serenità che nasconde un passato irrisolto. Tom Stall (Viggo Mortensen) è il proprietario di una tavola calda in una piccola cittadina dell’Indiana, un padre di famiglia esemplare la cui vita tranquilla viene sconvolta quando sventa un tentativo di rapina uccidendo due criminali. Il suo gesto eroico attira l’attenzione della mafia di Philadelphia, che lo riconosce come Joey Cusack, un ex sicario fuggito dal proprio passato.

Cronenberg costruisce il film attorno a una tensione architettonica: la provincia è uno spazio lineare, fatto di ambienti caldi e accoglienti, strade deserte e cieli aperti. La violenza è un corpo estraneo che irrompe in questo equilibrio, rivelando la natura fittizia del sogno americano. Quando Tom è costretto a tornare a Philadelphia per affrontare il fratello gangster (William Hurt), la città si presenta come l’opposto della provincia: un luogo oscuro, dominato da geometrie rigide e dal controllo del crimine organizzato. Il ritorno alle origini è un viaggio in uno spazio ostile, in un passato che inghiotte il protagonista e lo costringe a confrontarsi con la sua vera identità.


Se A History of Violence esplora la provincia come illusione di innocenza, La promessa dell’assassino (2007) trasferisce il discorso sulla città, trasformandola in un labirinto di potere e appartenenza. Ambientato in una Londra notturna e spietata, il film segue le vicende di Nikolai Luzhin (Viggo Mortensen), autista della mafia russa, e di Anna Chitrova (Naomi Watts), un’infermiera che cerca di salvare la figlia di una giovane prostituta morta di overdose. Qui la città è un organismo pulsante, uno spazio in cui il controllo della criminalità è radicato nella pietra e nel sangue.

A differenza della provincia di A History of Violence, Londra non è un luogo di illusione, ma di codici antichi e regole immutabili. La violenza è ritualizzata, trasmessa attraverso simboli inscritti direttamente sulla pelle: i tatuaggi dei Vory V Zakone, la mafia russa, non sono solo ornamenti, ma veri e propri documenti di identità, gerarchie incise nel corpo. Nikolai si muove in questo mondo con ambiguità, rivelandosi infine un infiltrato dei servizi segreti, ma la sua trasformazione non è una redenzione: è un passaggio di potere, un’iniziazione in un sistema che sopravvive a ogni individuo.

Il corpo è un’architettura fragile, la città un organismo infetto, l’identità un processo mutante. Il brutalismo, con le sue linee rigide e le sue superfici spoglie, diventa il guscio che si crepa, rivelando l’orrore della carne sotto la geometria.

4. New York e Los Angeles: il crepuscolo del potere

David Cronenberg, Cosmopolis, 2012

Negli Anni 10 del Duemila, Cronenberg si confronta con due capitali simboliche dell’Occidente contemporaneo: New York e Los Angeles. Cosmopolis (2012) e Maps to the Stars (2014) esplorano la dissoluzione del potere nella sua forma più astratta: il capitale e il mito. Se nei film precedenti la minaccia era biologica, tecnologica o sociale, qui il pericolo è il collasso della realtà stessa, inghiottita da un ipercontrollo che si trasforma in caos.

David Cronenberg, eXistenZ, 1999

Con Cosmopolis, Cronenberg adatta l’omonimo romanzo di Don DeLillo, trasformando una limousine in una capsula di isolamento e autodistruzione. Il protagonista, Eric Packer (Robert Pattinson), è un giovane miliardario della finanza che attraversa New York in auto, mentre il suo impero economico crolla sotto il peso della speculazione. Durante questo viaggio immobile, la città diventa un riflesso della sua dissoluzione: uno spazio asettico e irreale, popolato da figure enigmatiche che incarnano i fantasmi del potere finanziario.

L’estetica di Cosmopolis è dominata dalla sterilità del lusso e dalla rigidità geometrica: gli interni freddi della limousine, il vetro che separa Eric dal caos esterno, la struttura quasi teatrale dei dialoghi. Qui New York non è più una metropoli pulsante, ma un deserto di dati e transazioni, un’architettura spettrale in cui il protagonista si muove senza mai toccare davvero il mondo. Il capitalismo è rappresentato come una forza entropica: la logica del controllo assoluto porta inevitabilmente alla disintegrazione, al punto che l’unica esperienza autentica per Eric sembra essere la violenza finale, l’annientamento come ultima forma di libertà.

David Cronenberg, Videodrome, 1983


Se Cosmopolis analizza il declino del capitalismo attraverso il filtro asettico della finanza, Maps to the Stars fa lo stesso con Hollywood e la sua mitologia tossica. Los Angeles non è solo una città, ma un ecosistema chiuso, un circuito autoreferenziale di nevrosi e ossessioni in cui il potere è legato alla fama e alla sua riproduzione infinita. Il film segue la storia di Agatha (Mia Wasikowska), una ragazza che torna a Los Angeles per ricongiungersi con la sua famiglia, una dinastia di star e produttori dominata dall’incesto e dal narcisismo patologico.

L’architettura della città diventa un riflesso del suo sistema malato: le ville isolate sulle colline, le stanze fredde e impersonali, le piscine illuminate artificialmente, tutto contribuisce a creare un ambiente tanto lussuoso quanto spettrale. In Maps to the Stars, Los Angeles è un palcoscenico di fantasmi, in cui il passato non muore mai e i traumi si trasmettono come maledizioni ereditarie. La città è un inferno senza redenzione, dove l’ossessione per l’immagine e il successo si manifesta in allucinazioni, incesti simbolici e violenze represse.

5. Il ritorno al corpo degli ultimi anni

David Cronenberg, Crimes of the Future, 1970

Negli anni 2020, David Cronenberg ritorna con due opere che riaffermano la sua ossessione per il corpo e le sue trasformazioni: Crimes of the Future (2022) e The Shrouds (2024), film che rappresentano una riflessione matura e profonda sulle tematiche che hanno caratterizzato la sua carriera, esplorando nuovi orizzonti nella percezione della carne, evoluta o morta.

In Crimes of the Future, Cronenberg ci immerge in un futuro indefinito dove l'umanità si è adattata a un ambiente sintetico, provocando mutazioni e trasformazioni corporee. Il protagonista, Saul Tenser (Viggo Mortensen), è un artista performativo che, insieme alla sua partner Caprice (Léa Seydoux), mette in scena la rimozione chirurgica di nuovi organi che il suo corpo continua a sviluppare spontaneamente. Queste performance diventano eventi pubblici, esplorando i confini tra arte, dolore e piacere.

Il film riprende temi cari a Cronenberg, come la fusione tra tecnologia e corpo umano, e li porta a un nuovo livello di introspezione. Le mutazioni corporee non sono viste come aberrazioni, ma come la prossima fase dell'evoluzione umana. L'ambiente in cui si svolge la storia è decadente e post-apocalittico, con tecnologie semi-organiche che richiamano l'estetica dei suoi lavori precedenti. Gli effetti speciali, volutamente disturbanti, enfatizzano la fisicità delle trasformazioni, rendendo lo spettatore partecipe di un’esperienza sensoriale intensa.


Con l’ultimo The Shrouds, presentato in concorso al Festival di Cannes 2024, Cronenberg affronta il tema del lutto. Il film è ambientato in un futuro prossimo a Toronto, dove il protagonista Karsh (Vincent Cassel), un imprenditore tecnologico, ha creato un cimitero in cui le tombe sono dotate di sudari high-tech con telecamere che trasmettono in tempo reale la decomposizione dei corpi. Questa tecnologia consente ai vivi di osservare i defunti attraverso un’app, trasformando il lutto in un’esperienza voyeuristica perpetua. ​

Il design degli ambienti riflette questa fusione tra intimità e sorveglianza: spazi minimalisti, freddi e tecnologici, che evocano una sensazione di isolamento e controllo. Le tombe diventano schermi, e il cimitero si trasforma in un luogo di esposizione continua, dove la morte è osservata e monitorata, piuttosto che nascosta.​

David Cronenberg, Crimes of the Future, 2022

Cronenberg ha dichiarato che, nel film, il sudario non serve a nascondere il corpo, ma a rivelarlo. Questa inversione di funzione si riflette nel set design, dove ogni elemento architettonico è pensato per esporre, mostrare e rendere visibile ciò che normalmente è occultato.

In entrambi i film, il regista canadese accelera la sua esplorazione della carne ridefinendola come ultima frontiera dell’esperienza umana, offrendo una visione provocatoria del futuro, in cui il corpo e la tecnologia evolvono in modi inaspettati. Queste opere confermano la capacità del regista di interrogarsi sulle trasformazioni dell’identità e della percezione in un mondo in continuo mutamento, mantenendo una coerenza tematica che attraversa tutta la sua filmografia.

Immagine di apertura: David Cronenberg, The Shrouds - Segreti sepolti, 2024

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