Alla scoperta del brutalismo

Tra il secondo dopoguerra e i primi anni ’80 si sviluppa una tendenza globale che critica il Movimento Moderno, proponendo un’architettura di volumi solidi, tettonici, e materiali lasciati a nudo nella loro espressività.

Il brutalismo è una corrente architettonica che si sviluppa nel secondo dopoguerra nell'ambito della contestazione dei principi e degli stilemi fino ad allora dominanti nel Movimento Moderno. Il primo centro di formulazione di principi brutalisti è l'Inghilterra, dove alcuni architetti cercano un critica al Moderno che non sia storicista, né affine al “popolare” dell’empirismo scandinavo. Gli edifici sono messi a nudo nell'oggettività dei loro materiali, calcestruzzo, vetro, mattone, acciaio sono assemblati senza mediazioni formali, gli impianti lasciati a vista: “Il brutalismo tenta di affrontare la società di produzione in massa traendo una sorta di ‘rozza poesia’ dalle forze potenti e confuse che sono in gioco. (…) la sua essenza è etica.” (Smithson, 1956). Le prime ricerche si sviluppano infatti contestualmente e in sintonia con la pittura informale di Jackson Pollock e col sentimento antiartistico dell’Art Brut di Jean Dubuffet, e soprattutto con quelle riflessioni sulla società del dopoguerra tra urbanizzazione, produzione e consumi di massa, automatizzazione che, con opere come Just what is it that makes today's homes so different, so appealing? (1956) di Richard Hamilton, o la mostra This is tomorrow (1956) alla Whitechapel Gallery di Londra, aprono la strada alla Pop Art

Pienamente coinvolti in questo fenomeno, Alison e Peter Smithson sono infatti i primi e più rilevanti nomi legati al brutalismo inglese, e la loro scuola secondaria a Hunstanton (1949-56) inaugura con la nudità delle sue strutture ed impianti una stagione in cui si inseriscono anche i progetti per l’ampliamento dell’Università di Sheffield (1953) e il Golden Lane Estate (Londra,1952), l’edificio per il giornale The Economist (Londra,1959-63), e in particolare il successivo complesso abitativo dei Robin Hood Gardens (Londra,1969-72), tutti degli Smithson. La scena britannica include realizzazioni quali il South Bank Arts Centre di Londra (1951-), cui partecipano Warren Chalk, Ron Herron e Dennis Crompton, la facoltà di ingegneria della Leicester University (1959-63), la facoltà di storia della Cambridge University (1964-67), i dormitori del Queen’s College di Oxford (1966-71) di James Stirling — che però si chiamerà sempre fuori dalla compagine brutalista — e si completa con opere degli anni ’70 quali il complesso residenziale Alexandra Road Estate di Neave Brown (1968-78) e l’iconico insediamento multifunzionale del Barbican Estate di Chamberlin, Powell e Bon (1965-1976).

Neave Brown, Alexandra Road Estate - domus
Neave Brown, Alexandra Road Estate, Londra, 1968-78. In apertura: veduta del MuBE - Museu Brasilerio da Escultura di Paulo Mendes da Rocha, San Paolo, 1987

Il termine brutalismo fin dai primi tentativi formali di definizione va ad abbracciare uno spettro di riferimenti ed elementi compositivi in realtà ampio e diversificato, come dimostrerà il panorama tracciato da Reyner Banham nel saggio The New Brutalism (1966), che individua uno dei punti di partenza del brutalismo nel Le Corbusier dell’Unité d’Habitation a Marsiglia (1948), e nelle opere postbelliche di Le Corbusier tra cui il convento de La Tourette a Éveux (1953-60) le Maisons Jaoul a Neuilly-sur-Seine (1956) o il progetto di urbanizzazione Roq et Rob a Roquebrune (1949) dove ancora prevale l'onestà spoglia del calcestruzzo a vista, ma a tratti già si delineano i contributi plastici che, oltre a caratterizzare le sue realizzazioni indiane a Chandigarh (1951-), segneranno poi la tendenza brutalista nel senso più ampio negli anni. 

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Le Corbusier, Unité d'Habitation, Marsiglia, 1948

Infatti, col procedere della storia e con l’estendersi del concetto ad una scala globale, alla parola brutalismo viene sempre più associata una valenza puramente estetica, caratterizzata dall'impiego massivo del cemento armato a vista (béton brut) in una chiave di imponenza, solidi volumi tettonici spesso tendenti alla monumentalità scultorea. Pur rispondendo a loro etiche compositive specifiche, frutto di percorsi e contenti specifici, sono quindi associate ad un estetica brutalista molti lavori europei come quelli della fase matura di Marcel Breuer (dal Centro Ricerche IBM a La Gaude, presso Nizza, 1961-62 fino alle traduzioni d’oltreoceano come il Whitney Museum di New York, 1966), di Claude Parent in Francia, di Gottfried Böhm in Germania, in Italia quelli di Vittoriano Viganò (l’istituto Marchiondi a Baggio, Milano, del 1958;  la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, del 1970-85), Enrico Castiglioni (la casa della Cultura a Busto Arsizio, 1955; l’istituto Facchinetti a Castellanza, 1965) e in parte di Giancarlo De Carlo (il quartiere Matteotti a Terni, 1969-75).

Enrico Castiglioni, Carlo Fontana, Istituto tecnico Statale Industriale “Cipriano Facchinetti”, Castellanza, Italia, 1965. Foto: Roberto Conte - domus
Enrico Castiglioni, Carlo Fontana, Istituto tecnico Statale Industriale “Cipriano Facchinetti”, Castellanza, Italia, 1965. Foto: Roberto Conte

A livello globale poi le associazioni si fanno sempre più ampie: vengono associate al brutalismo le esperienze pre-metaboliste giapponesi di Kiyonori Kikutake e Kenzo Tange, tese tra megastruttura ed espressionismo strutturale ingegneristico; in Israele, realizzazioni di stampo scultoreo come gli edifici istituzionali di Be’er Sheva, nuova capitale del Distretto Meridionale cresciuta tra il 1948 e i primi ‘80, o i progetti di Arieh Sharon e Zvi Hecker degli anni ‘60 e ‘70; nei paesi in procinto di affrancarsi da un passato coloniale (Africa e Asia), le espressioni di un linguaggio architettonico pubblico o collettivo particolarmente adatto a incarnare una nuova indipendenza; negli Stati Uniti, l'espressione monumentale della Yale University Art Gallery di Louis I. Kahn (1951-53) o edifici di Paul Rudolph come la Facoltà di Architettura per la stessa Università di Yale (1960-1963). 

Michael and Shulamit Nadler, Zalman Aranne university library, Be'er Sheva, Israel - domus
Michael Nadler e Shulamit Nadler, biblioteca universitaria Zalman Aranne, Be'er Sheva, Israele, 1968-71. Foto Stefano Perego

Negli Stati del blocco socialista, l'etichetta brutalista è stata attribuita a maggiore o minor proposito tanto alle soluzioni di prefabbricazione per grandi volumetrie di edilizia residenziale pubblica, quanto ad edifici rappresentativi del potere e dell'iniziativa statale realizzati tra i tardi anni ‘60 e gli anni ‘80: ministeri, uffici pubblici ma anche alberghi, infrastrutture, edifici produttivi. 

Mihajlo Mitrović, Genex Tower – Western Gate of Belgrade (Zapadna Kapija Beograda), Belgrado, Serbia, 1980. Photo Roberto Conte - Domus
Mihajlo Mitrović, Genex Tower – Western Gate of Belgrade (Zapadna Kapija Beograda), Belgrado, Serbia, 1980. Foto: Roberto Conte

La stessa necessità di sottolineare la valenza etica prima di quella estetica nei progetti associati al brutalismo vale anche per il contesto dell'America Latina. Qui, l'impiego alla vasta scala di costruzione in cemento armato a vista nasce come risposta all’esplosione delle metropoli, che aumentano di popolazione in tempi brevissimi, ma diverse sono le interpretazioni date dei diversi progettisti: in Argentina, la poetica di Clorindo Testa nasce da una narrativa intimamente personale; in Brasile, se le espressioni di Oscar Niemeyer possono rientrare in una loro specificità di scultura, il cosiddetto Brutalismo Paulista (centrato su San Paolo, includente nomi come Joao Batista Vilanova Artigas, Lina Bo Bardi, Paulo Mendes da Rocha) si fonda tanto sulla immediata disponibilità di tecnologie costruttive del cemento armato di derivazione tedesca e giapponese, quanto, come in tutto il contesto latino-americano, sulla necessità di dare ad architetture rilevanti dal punto di vista estetico un significato per l'intero sistema urbano

Paulo Mendes da Rocha, MuBE - Museu Brasilerio da Escultura, Sao Paulo, 1987 - Domus
Paulo Mendes da Rocha, MuBE - Museu Brasilerio da Escultura, San Paolo, 1987

Se l'approccio di Paulo Mendes da Rocha, in edifici come la propria casa (Casa Mendes da Rocha, San Paolo, 1964) o il MuBE  (Museu Brasilerio da Escultura, San Paolo, 1987), si basa principalmente sulla priorità della costruzione e del suo calcolo, un edificio come il MASP di Lina Bo Bardi (Museu de Arte de São Paulo, 1958-1967) ha come priorità quella — che il MuBE in parte riprende — di creare uno spazio pubblico di aggregazione collettiva in un tessuto che altrimenti ne sarebbe mancante, riparando e rimarcando poi tale attraverso un imponente volume sospeso tra due grandi portali in calcestruzzo precompresso dipinto di rosso.

Lina Bo Bardi, MASP, Museu de Arte de São Paulo, 1958-1967 - domus
Lina Bo Bardi, MASP, Museu de Arte de São Paulo, 1958-1967
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