Matcha e recession indicator: Frieze London 2025 è lo specchio dei nostri tempi incerti

In un presente incerto non solo per il mondo dell’arte, Frieze è uno specchio del nostro tempo che si riscopre social e giovane ma parecchio demure. Il nostro racconto dalla grande fiera d’arte di Londra.

Cosa succede a Frieze? La grande fiera d'arte londinese, divisa tra le novità della sezione London e i fasti da brocantaggio di lusso di quella Masters, sembra aver lasciato tutti con più di una perplessità. 

L'arte, dopotutto, racconta (e nei casi migliori anticipa) i tempi e questi – lo si capirebbe anche senza fare un giro a Frieze – sono traballanti.

"Là fuori il mondo è inquieto, è un casino. La gente vuole rigore, vuole certezze," commenta un venditore nel booth della galleria londinese Lullo Pampoulides che tra le opere esposte ha due tele di Lorenzo Viani, espressionista toscano di inizio ‘900 e anarchico. I suoi quadri sono sinistri e magnetici: preludio di tempi da paranoia. Con o senza androidi. 

Gagosian, Frieze Masters 2025. Photo by Hugo Glendinning, Courtesy of Frieze.
Gagosian, Frieze Masters 2025. Photo by Hugo Glendinning, Courtesy of Frieze.

Gli spettri dell’oggi, tra demure e coquette

A colpire è soprattutto l'inconsapevole armonia che lega Frieze London e Masters. Laddove il primo è da sempre sinonimo di provocazioni e futuro del settore, in questa edizione abbondano, più del consueto, ritrattistica e nature morte. Cambiano i soggetti e l'abbigliamento, ma dalle famiglie interbelliche di Sironi a quelle londinesi dell'italiano Patrizio di Massimo (già autore dei ritratti di Roberto Bolle e del duo Formafantasma) le inquietudini si rincorrono tra i padiglioni, pur ben celate da calici (rigorosamente in plastica) di bianchi e champagne. 

Gli indizi per leggere Frieze 2025 vanno cercati nel vocabolario dell'oggi (e del ieri più prossimo), e dunque dei social. Demure e coquette sono le etichette che meglio sembrano definire tanto di ciò che si vede – e in fondo piace – nei due padiglioni di Frieze. Sono le piccole cose di pessimo gusto (e carissimo prezzo) di gozzaniana memoria, superflue eppure sublimi in questi tempi di spaesamento e anche di detox dagli eccessi e dai colori del pop e del modernismo ridotto a feticcio-moodboard per pagine Instagram e Pinterest. 

Brunette Coleman, Frieze London 2025. Photo by Linda Nylind. Courtesy of Frieze.
Brunette Coleman, Frieze London 2025. Photo by Linda Nylind. Courtesy of Frieze.

Lo suggerisce anche l’opera Accounts di Alex Margo Arden, presentata dalla galleria Ginny on Frederick e vincitrice del Nicoletta Fiorucci Foundation Prize. Un imponente scultura ready-made con manichini decommissionati dal National Transport Museum. Figure in gesso che rappresentano professioni di un’Inghilterra scomparsa, bianca, operaia e in fin dei conti forse più felice, fatta di lattai, fattorini, macellai e autisti di autobus con le loro divise e i camici bianchi. Statue monche, trasfigurate, con le divise lise e i toupee divelti, tenute insieme da una grande corda. Dickensianamente è il “ghost of Britain’s past”, lo spettro di una nazione confusa e ad un crocevia storico importante. 

Non è un caso che a parlare maggiormente al presente è il booth di Peter Finer, galleria londinese specializzata in antiquariato bellico: armature e alabarde medievali, cannoni e sachet settecenteschi ricamati. Da un lato un inquietante spettro del futuro prossimo, dall'altra una suggestione in piena continuità con i trend del presente. Dai tatuaggi cyber-medievali che hanno sostituito tribali e stick and poke nel gusto generazionale, al bardcore (microgenere nato nel 2020, che consiste in cover in stile medievale di classici pop) suonato alle feste della new, new right britannica, come raccontato dalla giornalista Jemima Kelly sul Financial Times.

10 A.M Art, Frieze Masters 2025. Photo by Hugo Glendinning. Courtesy Frieze.
10 A.M Art, Frieze Masters 2025. Photo by Hugo Glendinning. Courtesy Frieze.

Matcha, champagne e recession indicator.

Un altro concetto chiave di questi mesi è quello di recession indicator, ovvero tutti quei fenomeni che suggeriscono la condizione di recessione finanziaria ma anche sociale in cui viviamo. Uno di questi sono le mini tele, coquette e popolarissime. Si sa, i tempi sono quelli che sono: le case sempre più piccole (spesso solo stanze a Londra) e l'inflazione sempre più alta.

Un collega inglese suggerisce che la mancanza di particolare coraggio nelle proposte sia da legare ai tempi economicamente incerti e alla volontà di concludere affari sicuri, accantonando temporaneamente la ricerca. Parla di “effetto Kardashian”, secondo cui i grandi classici, come i Fontana – sempre presenti in ogni foggia e colore, al limite delle iperboli di Teleproboscide – sono diventati poco più che complementi d’arredo “per i bagni dei condomini di Miami”, da riempire con opere note. Ci mancherebbe ancora che gli ospiti vadano a casa senza almeno una foto al gabinetto.

Gli indizi per leggere Frieze 2025 vanno cercati nel vocabolario dell'oggi (e del ieri più prossimo), e dunque dei social. Demure e coquette sono le etichette che meglio sembrano definire tanto di ciò che si vede – e in fondo piace – nei due padiglioni di Frieze.

Una signora americana che ha superato la mezza età spiega che ha un podcast d’arte, ma che soprattutto opera nel mattone: real estate. Ahhh, come ama l’Italia, come vorrebbe trovarsi un giovane amante italiano e trasferirsi a Firenze, o chissà dove, a mangiare spa-gaddy e gelato pistascio. Ahh, la moda italiana e quella mostra di Armani con i vestiti tutti rossi che ha visto, o che insomma forse erano Valentino – sa, signora, Armani e il rosso non erano proprio cosa – accompagnati da opere d’arte, anch’esse tutte rosse. Di Basquiat e Fontana, per l’appunto.

Un altro recession indicator, inevitabile segno dei tempi che cambiano e della Gen Z che beve sempre meno, è l’avvento degli stand del matcha, laddove in passato dominavano quelli dello champagne da asporto. Per fortuna,  nel padiglione Masters solo tè con latte e caffè.

Charles Ede, Frieze Masters 2025, Photo by Hugo Glendinning, Courtesy Frieze.
Charles Ede, Frieze Masters 2025, Photo by Hugo Glendinning, Courtesy Frieze.

Social e socialites

Tessere un paragone con i social è inevitabile, perché sempre più arte (e design) negli ultimi anni sembra essere stata prodotta e allestita per compiacere la lente dello smartphone e i nostri feed. L’impressione è ora quella di assistere, anche nel gusto nei confronti di molte opere esposte, alla transizione dal massimalismo delle fotografie verticali, violentemente post-prodotte, al rifugio dell’orizzontale, magari anche un po’ sfocato, di un boomerismo lo-fi volutamente sghembo. Un riparo dalla performatività degli influencer e aspiranti tali, che comunque non mancano. D'altronde, non sei davvero stato alla VIP preview di Frieze se non hai postato almeno un selfie con il faccione in primo piano davanti all'imponente pannello d'ingresso in Regent's Park. Poco importa se poi uno entri o meno. 

Tra gli immancabili sosia di Basquiat di ogni fiera d’arte che si rispetti e una performatività sartoriale degna del miglior Plastic anni ‘80, tutti a Frieze sembrano un po' socialite – o si fanno passare per tali. Gli accessori – cappelli, calze, anelloni, anche cornetti prostetici (Halloween è alle porte) – si prendono la scena, ed è l'arte a diventare accessorio.

Frieze Masters 2025. Photo by Hugo Glendinning.  Courtesy of Frieze.
Frieze Masters 2025. Photo by Hugo Glendinning. Courtesy of Frieze.

La moda, dunque. Sempre più presente a tenere in piedi un sistema culturale che vacilla, anche se in Regno Unito con molta più dignità e fondi istituzionali che da noi. Stone Island sponsorizza la sezione Focus di Frieze London, supportando 34 gallerie emergenti e disegnando anche le divise dello staff in collaborazione con il fotografo Nat Faulkner. Prada, invece, si prende tutta la Town Hall di King’s Cross, appena rimessa a lucido. The Audience è un crocevia tra proiezione e installazione a cura del duo Elmgreen & Dragset, per riflettere sull’attention span (ritornano i social) e il significato di come guardiamo le cose. Dentro, in un set-up da cinema, manichini iperrealistici fissano uno schermo dove viene proiettato un film sfocato. Fuori, intanto, la coda per il party serale non finisce più, come lo sconforto di chi sperava, più che nell’open bar, nella foto ricordo sotto il triangolone di Miuccia. Altrimenti poi sembra che mi hanno rimbalzato. “L’installazione?! Che installazione?! Però i margarita sono ottimi!”

Qualcuno fa notare come le borse Chanel siano le vere protagoniste di questo Frieze. Le si riconosce subito, come gli espositori italiani, con i loro blazer dai rever a lancia esagerati, i pantaloni strettissimi e le sneaker – obbligatoriamente – bianche: un po’ imprenditore del triveneto, un po’ allenatore di Serie A. Inutile dire che i completi Savile Row della sezione Masters facciano un’altra figura, con le loro trame gessate e i pantaloni con risvolto di quattro centimetri. 

A sottolineare come Frieze sia diventato qualcosa di più grande della sola fiera di settore, ci sono i meme. Vero sigillo di qualità dei tempi che corrono. Su tutti quelli di @socks_house_meeting, breviario comportamentale della Londra più posh e millennial. In fin dei conti, come sottolinea l'amministratore – che preferisce mantenere l’anonimato –  “la vera arte a Frieze è aver costretto anche i miliardari a usare i bagni chimici”.

Immagine di apertura: Alex Margo Arden, Accounts, 2025. Photography by Choreo. Courtesy of the artist and Ginny on Frederick, London.

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