In corso al Guggenheim di Bilbao fino al 5 marzo 2026, “Arts of the Earth” si presenta, a primo impatto, come una grande festa: una rimpatriata intergenerazionale che riunisce più di quaranta artisti che, dagli anni ’60 a oggi, hanno lavorato con la terra — intesa come natura nella sua totalità — non solo come soggetto, ma come linguaggio, ispirazione, materia e metodo. La mostra è ampia e densamente abitata: ogni galleria ha un proprio clima, un odore, una consistenza, e le opere non si dispongono in isolamento ma in prossimità, quasi come se stessero conversando attorno al tavolo di un banchetto. È una scelta che contraddice l’ortodossia del white cube e che rende subito chiara l’intenzione del progetto: mettere in relazione più che separare.
Opere con parti organiche o viventi che evolvono nel tempo sono una grande sfida per i musei. In questo caso la sfida è stata accettata a pieno.
Manuel Cirauqui
Realizzata con il patrocinio di Iberdrola — il principale gruppo energetico spagnolo, da anni impegnato in progetti legati alla transizione ecologica e alla tutela del paesaggio, e che per la mostra ha contribuito anche con una parte degli alberi — “Arts of the Earth” diventa, per il Guggenheim, una sorta di prova generale. Il museo, con la sua architettura spettacolare firmata da Gehry, scomparso proprio in questi giorni, e l’aura quasi sacrale con cui accoglie soprattutto grandi nomi della storia dell’arte contemporanea, si ritrova qui a confrontarsi con materiali che mutano, organismi vivi, livelli di umidità imprevedibili, odori e processi che sfuggono al controllo totale.
Portare il tema della sostenibilità in questo contesto significa, prima di tutto, cambiare il modo in cui il museo pensa e lavora. Restare fedeli a questo impegno implica affrontarlo non come un semplice elemento del discorso espositivo, ma come qualcosa che entra nei processi reali, nelle scelte quotidiane e nei limiti con cui bisogna confrontarsi. Dalla gestione dei trasporti alla selezione dei materiali, dalla ricerca di risorse locali alla cura delle opere viventi, tutto richiede un ripensamento. Per un’istituzione abituata a controllare ogni parametro, accettare una quota di imprevedibilità è una piccola rivoluzione. Ed è un cambiamento che attraversa ogni reparto, come racconta Cirauqui: “Ha coinvolto tutto il museo.”
Il percorso si apre con alcuni antecedenti storici fondamentali: i collage vegetali di Jean Dubuffet, gli erbari di Joseph Beuys, le pitture su corteccia di Jimmy Lipundja, legate alle cosmologie del nord dell’Australia. Opere che mostrano come il rapporto tra arte e suolo non sia affatto recente, ma riemerga ciclicamente nella storia dell’arte contemporanea. Negli anni Settanta, figure come Ana Lupas, Fina Miralles o Meg Webster iniziano a usare materiali deperibili — paglia, terriccio, sabbia — costringendo già allora i musei a misurarsi con opere che mutano, si trasformano, si degradano. Hans Haacke ripropone i suoi esperimenti sulla crescita delle piante nello spazio espositivo, mentre, più di recente, Isa Melsheimer racchiude vegetazione viva in piccole serre di vetro che definisce “capsule del tempo”: micro-ecosistemi raccolti all’esterno e ora in grado di sostenersi da soli.
La mostra offre un approccio innovativo a qualcosa di profondamente antico come la vota organica.
Manuel Cirauqui
La memoria corre subito all’Arte Povera, movimento italiano nato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, che ha aperto la strada a un nuovo rapporto tra materiali e gesto artistico e che, in questo orizzonte estetico, resta un riferimento inevitabile. A confermarlo, la presenza in mostra di due maestri come Giuseppe Penone — scelto come immagine guida dell’evento — e Giovanni Anselmo. Per l’Arte Povera, la deperibilità era una sfida diretta al museo e ai suoi automatismi, un gesto politico che metteva in crisi il ruolo stesso del personale museale. Prendiamo ad esempio La scultura che mangia (1967) di Giovanni Anselmo: l’opera obbligava l’operatore museale — l’“ancella del tempio”, per usare un’immagine efficace — a sostituire la lattuga destinata a decomporsi nel giro di pochi giorni e a “nutrire” ciò che restava pur sempre un blocco di pietra. E, nonostante gli sforzi, il pubblico la incontrava spesso già appassita, perché era proprio la sua progressiva scomparsa a completare il senso dell’opera. Come osserva Cirauqui, del resto, “quando si hanno opere con parti organiche o viventi che evolvono nel tempo è sempre una tremenda sfida per i musei”.
Ma “Arts of the Earth” lavora invece sul comportamento reale dei materiali: opere che richiedono manutenzione costante, regolazioni quotidiane di luce e umidità, nel tentativo di ricalcare dentro il museo cicli e processi di crescita e resilienza che appartengono al mondo fuori dalle sue mura. Una gestione complessa che ha ben poco di “naturale”.
Il caso più evidente è Root Sequence. Mother Tongue (2025) di Asad Raza: ventisei alberi radicati in vasche riempite di terra locale, destinati a essere trapiantati dopo l’esposizione. L’opera costruisce un incontro reale con il mondo vegetale, ma la sua presenza è sorretta da un sistema invisibile di irrigazione e monitoraggio che ricorda quanto la vita, nel museo, debba essere costantemente negoziata. Gli alberi crescono, sì, ma all’interno di un regime di controllo che solleva una domanda inevitabile: cosa resta della natura quando, per essere esposta, dipende interamente dall’istituzione?
Una tensione simile attraversa la grande installazione di Delcy Morelos (Witch (Sorgin), 2025): una distesa di terra scura che ricostruisce la sezione stratificata di un terreno. L’impatto è fortemente immersivo, anche per il profumo intenso della terra che avvolge lo spazio, ma ciò che vediamo è pur sempre una natura rifatta, un paesaggio costruito per simulare il reale. L’opera racconta più come il museo può mostrare il suolo che il suolo stesso, e rende visibili le contraddizioni, inevitabili, tra ecologia e museografia.
Un altro aspetto interessante di questa operazione museale, direttamente legato alla scelta etica e tematica della sostenibilità, riguarda le conseguenze pratiche che essa produce nel modo di costruire una mostra. Ridurre i trasporti significa cercare opere e materiali nel raggio geografico più vicino, e infatti molti dei lavori provengono da pratiche attive nei Paesi Baschi o in regioni limitrofe. Le ceramiche di Mar de Dios, ottenute da fanghi della Biscaglia, e i moduli di David Bestué, realizzati con i sedimenti della ría del Nervión, sono solo due esempi. È uno spostamento di priorità che produce un effetto interessante: nel tempio firmato da Frank Gehry, tradizionalmente associato ai grandi nomi della scena internazionale, convivono ora artisti storici e artisti locali, giovani e maestri, delineando un orizzonte molto più ampio e paritario rispetto agli standard dei musei globali.
Il terreno comune di queste opere è un sentimento planetario.
Manuel Cirauqui
La forza di “Arts of the Earth” sta nel mostrare come cambi la geografia culturale di un progetto quando cambiano i criteri etici che lo orientano. È una mostra-sperimento: non dà risposte, e probabilmente non potrebbe darne, ma rende visibili le contraddizioni che accompagnano ogni tentativo di “fare ecologia” in un museo, trattando la sostenibilità non come un tema, bensì come un insieme di vincoli concreti.
Riesce a mantenere la complessità senza imporre una narrativa unica. Lavora su piani diversi — sensoriale, materiale, concettuale — e allo stesso tempo apre interrogativi molto concreti sul ruolo del museo oggi: è possibile parlare di ecologia senza ricorrere alla simulazione di ciò che in natura è spontaneo? Fino a che punto un museo può parlare del mondo — e al mondo — senza snaturarsi? E quanto può essere davvero sostenibile un’istituzione che, per sua natura, controlla ciò che accoglie?
- Mostra:
- Arts of the Earth
- Curata da:
- Manuel Cirauqui
- Dove:
- Guggenheim Museum Bilbao
- Date:
- 12.05.2025 - 05.03.2026
