“Time” after time

Dalle opere di Caravaggio a Botticelli, fino a quelle di Frans Hals, la luce consacra e tradisce il potere. Nell’ultima copertina del Time, dedicata al presidente Donald Trump dopo l'accordo di pace tra Israele e Hamas, la sacralità della luce diventa un problema identitario.

È l’eterna maledizione dell’uomo pubblico: finire sulla copertina del Time. Non basta esserci, bisogna esserci bene. Non è una semplice fotografia ma, per alcuni, un atto d’investitura, o per altri una pubblica scomunica. Il dramma è che, quando il soggetto è un uomo che ha eretto sé stesso a feticcio visivo, a logo semovente, il Tycoon in questione, la resa fotografica non è più un problema editoriale, ma un teorema di auto-percezione rovesciato, un casus belli. 

La recente cover, dedicata a Donald Trump dopo l’accordo di pace tra Israele e Hamas, meriterebbe un trattato di semiotica del potere. L’immagine prescelta, a detta del diretto interessato, non solo avrebbe prodotto una “brutta foto”, ma avrebbe operato una singolare sottrazione: quella della chioma, che sarebbe stata resa quasi invisibile.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Madonna dei Palafrenieri, 1605, Galleria Borghese, Roma. Foto Di Caravaggio - Web Gallery of Art:   Immagine  Info about artwork, Pubblico dominio, via Wikimedia Commons

Qui si tocca quindi l’essenza della rappresentazione. Se un uomo di potere contesta il proprio ritratto, non è mai per la politica, ma per la teologia, per la rappresentazione che sottintende. Il lamento del Tycoon non è solo una querelle estetica da salotto, ma un profondo dissidio ontologico, la foto è "brutta" non per un difetto di composizione, ma per una mancanza identitaria. La luce si trasforma in un alone luminoso intorno al cranio, quella aureola involontaria e blasfema, è la vera pietra dello scandalo. Non è quindi un'investitura, ma una negazione. È come se nella foto si volesse suggerire una grazia inattesa o, peggio ancora, una fragilità esposta. E l'ultima cosa che un brand di potere vuole è la fragilità.

Se un uomo di potere contesta il proprio ritratto, non è mai per la politica, ma per la teologia, per la rappresentazione che sottintende.

Proviamo allora a fare un parallelo sulla ritrattistica, anche religiosa e guardiamo alla Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio (1605), capolavoro di crudo realismo destinato a San Pietro, che fu presto ritirata per indecenza. Maria era troppo popolare, troppo carnale; il Bambino, già grandicello, aiutava la madre a schiacciare il serpente in un gesto troppo dinamico, quasi prosaico. Sant’Anna, poi, era una vecchia rugosa in ombra. Il sacro del Merisi era troppo vero per essere accettato. L'aureola, seppur presente, era una formalità di fronte allo scandalo del corpo. 

Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat, 1483, Galleria degli Uffizi, Firenze. Foto Di Livioandronico2013 - Opera propria, Pubblico dominio, via Wikimedia Commons

Oggi, il soggetto in copertina, contesta l’eccesso di sacro, un’aureola che non è un’investitura, ma la negazione di una delle sue più grandi costruzioni identitarie: il capello. È l’inverso dello scandalo caravaggesco: qui la realtà è troppo brutta per accettare l'idea di una santità involontaria, eppure in qualche modo la rappresentazione prospettica del volto di Trump ricorda questa grande opera.

Frans Hals, Cavaliere ridente, 1624, Wallace Collection, Londra. Di Frans Hals - https://www.oxfordartonline.com/page/wallace-collection-guide, Pubblico dominio, via Wikimedia Commons

Si potrebbe poi osservare la Madonna del Magnificat di Sandro Botticelli (circa 1481). La Vergine, in una cornice di grazia ideale, è incoronata con un diadema d’oro da due angeli-paggi, e la luce dorata è segno di una grazia preesistente, una bellezza spirituale che il Rinascimento fiorentino elevava a canone. La luce è un plusvalore che sottolinea l’elezione. Trump, invece, percepisce quell’inganno ottico come una défaillance, un’imposizione esterna su un’iconografia che preferisce il marmo lucido del potere al velo d’oro della santità. Botticelli idealizzava; il Time, a suo modo, ha innescato una (non voluta) trascendenza.

Anche il ritratto peggiore fa parte di un ‘tronie’ che è già leggenda.

Poi c’è il monito supremo dell’ironia, quella che il potere non capisce. Volgiamo allora lo sguardo al Nord, verso Frans Hals e il suo Cavaliere Ridente (1624). Un ritratto vibrante, di pennellata libera, dove il soggetto, con il suo baffo arricciato e l’abito sfarzoso, non sta nemmeno ridendo, ma sorridendo in modo sornione, quasi complice. Non c'è aureola né grazia divina, solo l’orgoglio borghese di un’Olanda che si affaccia al barocco. La potenza di quel sorriso sta nella sua auto-consapevolezza, nell’accettazione che l’immagine è un gioco, una messa in scena. 

Donald Trump sulla copertina del Time

Se il protagonista della cover avesse avuto lo spirito di quel Cavaliere olandese, non si sarebbe lamentato dei capelli o della simil aureola. Avrebbe magari sorriso – quel sorriso sfacciato che è la vera corona del potere moderno – e accettato che anche il ritratto peggiore fa parte di un tronie che è già leggenda. Invece no, l’involontaria corona è inaccettabile per il presidente degli Stati Uniti d’America, brutta. È questo, in fondo, il più grande paradosso visivo del nostro tempo.