Ritorno di senso, nuova grandissima attenzione da parte del mondo del collectible design, hype commerciale e soprattutto hobbistico: la ceramica in pochi anni ha ripreso il controllo della scena. Con un’unica controindicazione. Attraversando le varie Design Week, le mostre e fiere che ormai saturano l’agenda globale – e sul finire dell’anno si prendono una pausa, meritata più da noi che da loro – la sovrabbondanza di contenuto ceramic-related rischia di appiattire quello che alla fine rimane in mente al pubblico, ed è un solo, stanco concetto: #vasetti.
Per fare un attimo di chiarezza, lasciando da parte il rumore bianco dei laboratori-con-aperitivo e dell’eventistica, abbiamo approfittato comunque di una festa, Cèramica, che la cittadina di Montelupo Fiorentino dedica proprio a un’arte di cui è epicentro da secoli. E un’immagine di cosa resta di tanta tradizione, e soprattutto di dove si andrà, sul serio, ha preso forma.
Name-dropping plurisecolare
Perché Montelupo? La riposta è un pozzo. Il pozzo dei Lavatoi, in cima a questo centro medievale adagiato alla confluenza dell’Arno e della Pesa: nel’400 collassa e diventa la discarica delle ceramiche fallate, riempiendosi fino a ‘700 inoltrato. Lo riscoprono negli anni ’70, e così viene alla luce l’archivio già ordinato di una storia lunghissima, di oggetti di funzione ma anche e soprattutto di decorazione, status symbol richiestissimi dalla Firenze medicea ma anche vasi per farmacie e ospedali, tecniche, colorazioni e figure che attraversano le epoche e creano un’identità.
C’è un vaso di Duccio Maria Gambi creato in residenza da Bitossi che lo racconta, ma ne parliamo più avanti. È l’identità che sopravvivrà fino al ‘900, con Christian Dior che vorrà gli Arlecchini del montelupino Eugenio Taccini per i suoi atelier, con Bruno Bagnoli che parte dal grès, materiale da tubi fognari ormai in disuso e non ancora monopolista industriale dei pavimenti, per esplorazioni formali tra avanguardie e arte concreta, tessendo una rete di scambi dove a un certo punto figura anche Gio Ponti.
È così che Montelupo è diventata una parola precisa nel discorso italiano sulla decorazione, ma anche in quello internazionale, con gli oggetti che dal dopoguerra Aldo Londi concepisce per Bitossi – Londi parla inglese, farà la differenza – traducendo in forme lo Zeitgeist del moderno, e poi del postmoderno e del contemporaneo.
È così che Montelupo diventa un laboratorio di linguaggi. Ettore Sottsass è una presenza fissa da metà ‘50 in poi, e con lui lo saranno anche gli altri nomi di Memphis come Du Pasquier e De Lucchi: un ecosistema che continua a crescere con nomi come Faye Toogood, Formafantasma, Rooms Studio, per farne alcuni, o per citarlo finalmente, il lavoro sul riuso dello scarto di Gambi, che richiama il Pozzo dei Lavatoi.
“Bridging craftmanship and design”
L’abbiamo capito: a Montelupo con la ceramica non s’è mai smesso. Ci sono stati rilanci come quello che negli anni ’90 ha di novo puntato sull’identità produttiva – portandosi dietro la ceramica anche in edifici tutt’altro che discreti come quello di Marco Dezzi Bardeschi per i servizi pubblici – e presenze come quella ininterrotta di Ugo La Pietra che ha progettato spazi pubblici, e di Marco Bagnoli che del suo atelier-archivio poco fuori città fa un’architettura-opera vivente, anche lei con la ceramica dei suoi Sette dormienti – un galestro rosso selenio – a fare da manifesto di un luogo.
Soprattutto, c’è una Scuola. Una Scuola di Ceramica che peraltro si presenta come l’unica ora a rilasciare diplomi professionali in Italia. Tra gli spazi dedicati a modellazioni e cotture, e l’installazione di Riccardo Previdi – uno studio di volumetria, stampa 3d e colorazione di tronchi d’albero – quello che non passa inosservato è lo spazio destinato alla formazione sulla formatura: la goffaggine linguistica è voluta, perché è nella formatura che si colloca il passaggio dalla manualità alla possibile serialità della produzione, il passaggio dell’oggetto da one-off il cui valore si lega all’artista, a prodotto il cui valore è dato dall’uso, dalla circolazione in una scena collettiva e non più individuale.
Quello che cerchiamo inizia a farsi vedere, quel tramite tra artigianalità e produzione, “bridging craftmanship and design” come ci dice Eric Landon, ceramista statunitense di base a Copenhagen che il mondo conosce come Tortus, anche se quello è il nome del suo studio. In residenza a Montelupo, dentro le antiche fornaci, Landon è venuto a cercare un dialogo tra il gesto forte del terracottaio, colonna della cultura locale che, pur a mano, produce in serie, e il suo gesto di mano leggera, danzante sulla materia di pezzi unici. La scommessa è quella di trovare un match tra linguaggi contemporanei e tradizioni decorative ultracentenarie.
Nella Scuola, invece, Fabienne Withofs sta tenendo un workshop di tecniche ceramiche giapponesi, circondata dai lavori della sua residenza, From Sheep to Ostrich: tutta la condivisione è intima, tutto avviene in silenzio. Altri workshop si susseguono, con Landon e Previdi.
Se c’è uno spazio in cui possono nascere i passi avanti nel discorso su cosa possa dire la ceramica nel nostro spazio domestico e negli spazi intermedi della nostra esistenza attuale – da materiale sempre sospeso tra forma e funzione quale è – sembra sia questo, o che abbia il potenziale per esserlo. Un po’ come il caso naturale – i fiumi, la confluenza, le argille – ha assegnato a Montelupo la ceramica quasi come una specie di destino, adesso è questa condizione di vicinanza tra produzione, formazione e possibilità di una ricerca che nasce dialogando, che fa pensare alle possibilità di passi futuri. Qualcosa che molto difficilmente si riesce a mettere a fuoco durante una design week.
- Mostra:
- Cèramica
- Luogo:
- Montelupo Fiorentino, Firenze, Italia
- Date:
- 6-8 , 12-14, 19-21 dicembre 2025
