
Il programma parigino creato con la direzione artistica di Carolyn Lucas e Diane Madden ha riletto retrospettivamente l’impagabile sobrietà di gesti e spazi immergendo il lavoro di Trisha Brown nell’originalissima sonorità della mostra “Le Grand Orchestre des Animaux”, che è visibile fino a gennaio negli spazi della Fondazione. Un programma deambulatorio tra esterno e interno nella concretezza dell’ambiente sonoro disegnato da Bernie Krause, musicista e ricercatore bio-acustico americano. La prossimità di questo contesto punteggiato di ambienti sonori in via di disparizione immerge in una luce differente persino la “brevissima” discesa dell’edificio di vetro e acciaio di Jean Nouvel.
La distanza dalla stessa “passeggiata” in bianco e nero sulla facciata di una palazzina in mattoni di SoHo, la si misura in decenni e tecniche di ripresa ma resta un evento. Un’idea radicale che scatena una marea di pensieri: sulla legge di gravità, sulla statica, sull’equilibrio. Un modo per sottolineare la capacita di Trisha Brown di ingenerare micro-rivoluzioni con semplici dispositivi. Il rivolgere e stravolgere l’attenzione dello spettatore verso spazi inusuali che altri artisti non avevano ancora investito. Trisha Brown ha spesso riguadagnato questa centralità per spazi che vivevano nell’indifferenza dello sguardo. Ha ripercorso e fatto ripercorre di volta in volta le prospettive inedite che potevano offrire alla sua danza i soffitti, i muri, gli angoli e perfino i tetti o gli spazi di raccordo.

Dalla complessità coreografica di un hangar di Newark fino alle strutture variabili dei tetti della downtown New York. Ora il suo repertorio può citare tutte queste “uscite”, dalle più urbane a quelle nella natura. Siamo di fronte a uno sterminato canovaccio per improvvisazioni, concetto centrale nella danza di Anna Halprin di cui Trisha Brown fu allieva o di Simone Forti con il quale divise la complicità degli esordi. Una ricerca che nutritasi e sopravvissuta allo shock dei primi happening, al teatro di Robert Whitman, ne ha incorporato stabilmente le vicende. Una missione demistificatoria dell’idea di spettacolo che parla e descrive un mondo fatto di luoghi danzabili e che include l’ipotesi di venire letto in termini “fisici” e di assemblaggio. Non esiste sofisticazione per una ricerca estremamente suggestiva che riduce la distanza tra i ballerini e il pubblico e ci invita a moltiplicare i punti di vista. Concetti, questi, attraversati dai tanti artisti, come Robert Rauschenberg, con cui Trisha Brown ha intessuto indimenticabili collaborazioni.
Anche dai lavori più semplici presentati in questo programma la specificità di cortissimi come Sticks IV, II (1973) o nei Leaning Duets (1970), della durata di tre minuti, è facile astrarre il suo interesse per l’instabilità delle situazioni.
