Sulla nozione molto discussa di identità, tempo fa si è espresso l'antropologo Francesco Remotti. Remotti scrive di identità come di una parola "avvelenata" perché "promette ciò che non c'è, ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione, o al massimo un'aspirazione". Insomma la considera un argine, troppo spesso utilizzato in maniera risolutoria per sopperire, in realtà, alla mancanza di altre definizioni. A seguito di queste dichiarazioni Remotti prosegue proponendo un esercizio provocatorio, ma sistematico e funzionale a interrogarci veramente sul significato di questa parola. Ovvero. Se provassimo, ad esempio, a sostituire questa parola con altre meno tautologiche, ma più relative al contesto di cui si parla, forse potremmo sperare di contribuire ad alleggerirla.
Il lavoro di Cuoghi, dal suo palesarsi fino agli ultimi esiti, ha sempre avuto a che fare con l'identità. Con la metamorfosi certo, le trasformazioni, i passaggi, il tempo. Ma l'identità resta una chiave che potrebbe essere quella più utile a penetrare e spiritualizzare la complessità dei suoi processi.
La mostra Zoloto in corso alla galleria Massimo De Carlo, è indubbiamente bella, piena, doviziosa. Ci si immerge come in un lago, toccando un fondale a tratti esotico o paludoso, a tratti trasparente e cristallino.
L'identità resta in agguato. La si sente traspirare dalla collezione di ritratti nella prima stanza che apre la sua mostra.
Roberto Cuoghi: Zoloto
Quest'ultimo lavoro di Cuoghi indaga, ancora una volta, la questione dell'identità. E come nella migliore tradizione il ritratto e l'autoritratto sono il fulcro di questa indagine.
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- Martina Angelotti
- 30 giugno 2012
- Milano
L'autoritratto è un linguaggio pittorico che si porta dietro secoli di tradizione, e se pur nelle sue declinazioni più evidenti lasciateci dalla storia - ritratto simbolico, tipologico, fisiognomico o di ricostruzione - qui si manifesta come un principio che supera la tradizione per imporsi come primo sostituto d'identità: un pretesto.
Lo sguardo dell'osservatore compie un giro completo attorno a un artista che, nonostante esprima la propria fisicità in manifestazioni mai del tutto uguali fra loro, in realtà ci sta portando dentro a un'analisi che prescinde da lui stesso, per contemplare il resto.
Cuoghi che non taglia le sue unghie per mesi, fino a farle curvare sulle dita; Cuoghi che a 24 anni decide di cambiare il proprio aspetto per assumere le sembianze di un uomo di mezza età.
Parodiare, effettivamente, ha valenze ben più antiche di quel che immaginiamo, e desta impressione constatare che un artista come Cuoghi fin da "giovane" abbia appreso e interiorizzato così bene questi strumenti, tanto da non renderli mai del tutto trasparenti, per conservarne l'integrità.
Ogni volto è l'espressione di un "io" che si lega all'immanenza, alla caducità, alla pesantezza di un idolo, alla popolarità di un'iconografia. L'effige di un volto incorniciato nel frame di un pacchetto di sigari brasiliani, o in quello di un'antica moneta romana, non si abissa nell'elucubrazione di un'alterità, ma diviene il segno "apoteotico" di un'autocelebrazione che volontariamente assume toni grotteschi, blasfemi, quasi cerimoniali.
L'autoritratto è un linguaggio pittorico che si porta dietro secoli di tradizione; qui si manifesta come un principio che supera la tradizione per imporsi come primo sostituto d'identità: un pretesto
Soprattutto quando, a rompere questa narrazione pittorica, fluida e rigenerante, si innesca il meccanismo della ridondanza, attraverso l'apparizione di una creatura mostruosa, trafugata dalla Mesopotamia precristiana. Pazuzu, avevamo già avuto modo di vederlo in formato gigante, nella retrospettiva che il Museo di Rivoli aveva dedicato a Cuoghi nel 2008. Questa è una versione ridotta, realizzata con marmo nero di Carrara, che ancora una volta esiste nella sua immanenza, di demone chiuso dentro al sarcofago di una scultura. La coda da scorpione, il pene a forma di serpente, le ali da uccello, un gancio sulla testa che riabilita la sua funzione originaria di amuleto, appeso sulla porta di casa o sulle culle dei neonati, come protezione.
Sì perché Pazuzu, come ha più volte raccontato Cuoghi stesso, è il demone del vento antagonista dello spirito Lamashtu rapitore dei bambini. Un "demone scaccia demone", che tiene una mano rivolta verso l'alto a segnare il cielo e l'altra verso il basso per toccare terra. Lo spirito di Pazuzu viene più volte invocato, santificato in una scultura che ne riproduce l'iconografia originale, e poi profanato in forme sempre più ammiccanti, sensuali, plasmate da una spugna poliuretanica nera come la pece o dal calcare bianco delle Dolomiti. Non c'è il timore di offendere una tradizione, o di tradire l'aspettativa religiosa. Tutta questa materia, prega e si fa liturgica, poi si rigenera sotto altre spoglie, rimesta le culture e le forme di un culto devoto.
fino al 6 luglio
galleria Massimo De Carlo
via privata Ventura, 5
Milano