Non è affatto strano che sia uno scrittore (in questo caso un grandissimo scrittore) a fornirci una definizione così lucida ed esatta del difficile mestiere dell’urbanista, tanto più arduo oggi di fronte allo sfarinamento di una civiltà. Il messaggio di Marco Polo è chiaro: le città non funzionano e quindi a lungo non resistono come semplice trasposizione spaziale di un progetto deterministico, sia esso frutto della mente più illuminata e chiaroveggente. E tanto meno sono il risultato della compresenza dei loro elementi architettonici, anche di grande pregio. Così pure, le città non si identificano con il proprio “esser-ci”, poiché la loro natura travalica le contingenze della quotidianità dilatandosi nella dimensione temporale. Di fronte a tante periferie degradate, a tanti quartieri anonimi, a tanta edificazione orribile, a tanto scempio di un patrimonio di preesistenze che, soprattutto in Italia, costituisce il valore tangibile di un’appartenenza culturale, mi sono chiesto spesso dove fosse lo sbaglio, di chi fosse la colpa.
Semplificando si potrebbe dire che, prima ancora delle pressioni demografiche, della speculazione o dell’incuria, il maggiore responsabile sia il CAD, ossia quello strumento sciaguratamente formidabile che permette di disegnare non solo un edificio, ma una città intera a tavolino e rapidissimamente, nella totale virtualità di un videogame. Il CAD ha spazzato via d’un colpo la necessità di conoscere nel suo intimo il territorio che si vuole trasformare: le sue pietre, i suoi odori, le sue voci, i modi in cui la gente si incontra, ciò che desidera e ciò di cui ha paura. E più ancora della tecnologia i guasti maggiori li hanno prodotti i programmi informatici del CAD e il loro abuso da parte di progettisti per i quali gli elementi compostivi della città sono icone poste al lato dello schermo: un volume, una strada, un albero, da moltiplicare alla bisogna con un semplice click del mouse.
Marco Polo non conosceva il CAD e nel caso probabilmente sarebbe stato anche più esplicito. Tuttavia, il suo pensiero va oltre alla condanna di un maldestro progettista. Nel suo giudizio egli ci mette in guardia dalle banalizzazioni e ci indica la strada maestra per l’esercizio di una vera e propria arte. Perché è di questo che stiamo parlando quando ci occupiamo di urbanistica, che è faccenda ben lontana dalla scienza delle costruzioni. Tanto lontana quanto lo è la letteratura dalla pratica dello scrivere.
Se l’arte è un’attività creativa volta a realizzare una “cosa” unica e irripetibile, frutto di un’idea originale e destinata a stare nel mondo con un’autonoma, riconoscibile identità fondamentalmente svincolata dal suo autore quanto dal suo destinatario, l’urbanistica è certamente un’arte, straordinariamente complessa e potente. Una città non è un oggetto di consumo, ad essa non si chiede affatto la soddisfazione di un bisogno immediato e neppure la rispondenza ad un qualche cliché, ma appunto la capacità di rispondere ad una domanda. Provando ad allargarsi un poco dall’enigmatico assioma di Marco Polo, potremmo dire che essa sia anzitutto il luogo in cui le domande possono esprimersi e quindi intrecciarsi con le domande di altri, ibridarsi, definirsi, sfumarsi, rinforzarsi e in questo divenire sedimentare una qualche risposta che appaia sensata o almeno meritevole di giocare su di essa la propria vita. Questo perché l’urbanistica è un’arte che ha a che fare con la vita delle persone, crea gli spazi in cui la vita nella sua dimensione più autentica e pertanto eternamente sfuggente può avere luogo, traccia gli incroci dove le esperienze dei singoli si connettono anche per un solo istante a quelle degli altri. In verità, una cosa analoga può dirsi della letteratura ed è forse per questo che a Calvino il giudizio deve essere apparso così netto. L’arte dello scrivere non è certo data dalla capacità di comunicare informazioni e neppure metafore del proprio quotidiano, bensì da quella di creare una realtà addizionale e catalizzatrice, in grado di intercettare i percorsi profondi dell’esistenza e di generarne di nuovi. Cercando di piegare in qualche modo lo spazio, e quindi il tempo in cui la nostra vita si dipana.
Un urbanista assomiglia molto di più ad un poeta che ad un geometra o ad un ingegnere, così come un poeta assomiglia molto di più ad un urbanista che ad un biografo o ad un cronista. Entrambi lavorano sulla stessa materia, entrambi sono di fronte agli stessi fantasmi.
Non è un caso che un paio di anni dopo Le città invisibili un altro oulipien doc come Georges Perec abbia pubblicato "Specie di spazi", una sorta di rassegna della sterminata e crescente varietà di spazi in cui ha luogo la nostra vita. Spazi che prima di essere il letto, la camera, l’appartamento, il palazzo, la strada, il quartiere, la città, la campagna, il paese, il mondo o lo spazio-spazio è la stessa pagina in cui ha luogo la scrittura, dove “è possibile cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”.
Perché, avverte Perec “vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male”.
Guido Conforti, dicembre 2009
	
	
	
	CottoMilano: un progetto ispirato alla città
Ceramiche Keope ha presentato la nuova collezione di finiture in gres porcellanato al Cersaie 2025. Disegnata da Domenico Orefice, CottoMilano trae ispirazione dalla matericità della città meneghina.

		 
			
					
					
				