Venezia. Machines à penser, i luoghi dove nascono le idee

La mostra curata da Dieter Roelstraete alla Fondazione Prada è una sfida sul tema dell’ansia di fuga e dell’esilio interiore.

Machines à penser, Fondazione Prada, venezia

“Machines 
à penser”, la mostra della Fondazione Prada che si confronta con il contesto della Biennale di Architettura di Venezia, si appunta su una forma architettonica elementare, ma dalle ampie implicazioni simboliche: la capanna. Il progetto nasce da un’elaborazione intellettuale sul tema della mente e della cultura e, più in particolare, sul rapporto tra spazio e pensiero, tra l’abitare e la riflessione filosofica. Un rapporto percepibile nel fatto che diverse figure fondamentali della filosofia del XX secolo, accomunate da una matrice tedesca, vissero, per scelta o per forza, condizioni di ritiro, di fuga e di dislocazione: Martin Heidegger (1889-1976), Ludwig Wittgenstein (1889 1951) e Theodor W. Adorno (1903-1969). 

Il curatore Dieter Roelstraete si concentra su luoghi, fisici o mentali, che favorirono la riflessione e la produzione intellettuale di questi grandi pensatori. In particolare, il progetto si appunta sulle baite che due di essi, Heidegger e Wittgenstein, si fecero costruire in luoghi più o meno remoti dalla città, e nei quali scrissero le loro rispettive opere fondamentali. E sulla dimensione di lontananza e di dislocazione vissuta dal terzo di loro, Adorno, durante gli anni di esilio a Los Angeles. Per quanto riguarda quest’ultimo, la dimensione della capanna è cristallizzata nella Adorno’s Hut: un’opera in forma di piccola casa realizzata in legno e metallo dall’artista scozzese Ian Hamilton Finlay; il quale, nel 1987, a sua volta, scelse d’isolarsi in un’area remota del Paese e gestì il proprio giardino come se si fosse trattato di una città-stato.

Le situazioni vissute da Heidegger, favorevole al Nazismo senza ravvedimenti, e di Wittgenstein e Adorno, provenienti entrambi da famiglie ebraiche cosmopolite, furono dunque ben diverse le une dalle altre. Come Roelstraete sostiene nel catalogo della mostra, per Heidegger la baita, che sta al di là, ma anche al di sopra della vita ordinaria, “fu non solo una proposizione filosofica in legno e pietra, ma anche un espediente retorico e una performance”. Così non fu per Wittgenstein, la cui vita consistette in una serie di fughedovute a una necessità interiore, e il cui rifugio, situato in un fiordo a Skjoldenin Norvegia, fu effettivamente estremo; né, certo, per Adorno, il cui esilio dipese dalla persecuzione nazista. 

La mostra si costruisce a partire da questi riferimenti: al centro, troviamo la riproduzione dei due luoghi di ritiro di Heidegger e Wittgenstein; mentre, per quanto riguarda Adorno, lo spazio di concentrazione è legato, semmai, alla musica, sua grande passione. Per questo oltre alla Adorno’s Hutdi Finlay, che si trova al piano nobile del Palazzo insieme alle altre due capanne, in mostra c’è l’ampia installazione sonora di Susan Philipsz Part File Score, accompagnata da una grande fotografia di Patrick Lakey che documenta l’interno di Villa Aurora a Los Angeles, frequentata come luogo di scambio d’idee dal filosofo e dalla comunità di transfughi intellettuali che si forma nella città durante il periodo del Terzo Reich. 

La mostra procede per rimandi e concatenazioni di significatie comprende altre opere, in relazione più o meno stringente con le biografie dei tre filosofi e con l’idea di lontananza e di isolamento. Ci sono tre vasi in terracotta, porcellana e gomma, appositamente realizzati per la mostra da Goshka Macuga. Rappresentano le teste dei tre filosofi, e germogliano piante e fiori. 

Anselm Kiefer ha realizzato una scultura in dialogo con il cineasta e scrittore Alexander Kluge, che fu vicino ad Adorno negli ultimi anni del suo incarico alla Scuola di Francoforte; Kluge, a sua volta, ha concepito per la mostra un video incentrato sul suo ricordo della passione di Adorno per il cinema. 

Ci sono inoltre alcuni oggetti che ampliano il campo di riferimento semantico e temporale: una sezione storica esplora la figura dell’eremita, incentrandosi sulla leggenda del padre della Chiesa San Gerolamo, vissuto tra il IV e il V secolo d.C. Parte dei dipinti e delle stampe rinascimentali relativi al santo è esposta all’interno di uno studiolo rinascimentale in legno intarsiato, straordinario simbolo anch’esso della necessità di ritiro e del desiderio di sottrarsi alla pressione quotidiana per immergersi nella concentrazione del pensiero e dello studio. All’interno dello studiolo sono presentate edizioni rare di opere di Heidegger e Wittgenstein. 

Tra slittamenti di senso e riferimenti incrociati, in questa mostra rarefatta si sentono serpeggiare le grandi tensioni della storia, e le incolmabili contraddizioni del pensiero. Così, per esempio, all’interno della casa di Heidegger troviamo le foto realizzate a Todtnauberg tra il 1966 e il 1968 dalla fotoreporter – di famiglia ebraica – Digne Meller-Marcovicz. Di più la mostra non rivela esplicitamente; ma un sordo stridore la sottende, e si fa sempre più forte man mano che ci si addentra nel reticolo di riferimenti. “Machines à penser” è una sfida: una mostra che richiede preparazione e offre crescente soddisfazione a chi ne possa leggere l’intreccio fitto dei sottotesti. Non solo il tema dell’ansia di fuga e dell’esilio interiore è estremamente significativo, ma il fatto stesso di proporla, in tempo di livellamento culturale, di mostre spettacolo e di populismi, è di per sé uno statement.

Titolo mostra:
Machines à penser
Date di apertura:
23 maggio – 25 novembre 2018
Curatore:
Dieter Roelstraete
Sede:
Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, Venezia

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