Napoli. Al Madre è in mostra l’arte dell’uomo che muore

La mostra “Pompei@Madre” accosta reperti archeologici pompeiani a opere d’arte moderna e contemporanea, dando vita a un inaspettato dialogo sullo scorrere del tempo e sulla caducità umana.

Un sentimento apparentemente indecifrabile accompagna il visitatore tra le opere e gli oggetti esposti in occasione di “Pompei@Madre” (mostra dedicata al dialogo tra reperti archeologici provenienti da Pompei e opere d’arte moderna e contemporanea). Le scelte e gli accostamenti che quest’esposizione propone ci fanno oscillare costantemente tra ciò che Freud definisce perturbante – quel qualcosa che ci terrorizza, ma che allo stesso tempo ha un che d’inspiegabilmente familiare – e il sublime, inteso come quella romantica percezione dell’infinita immensità della natura. Parafrasando Wilhelm Jensen nella Gradiva è come se da questo, inoltrandosi tra le sale espositive, derivasse la sensazione che la morte cominci a parlare “anche se in forme non afferrabili all’orecchio umano”.

In apertura: Daniel Buren e reperti di una domus pompeiana. Qui sopra: Francesco Clemente e selezione di arredi e oggetti della domus antica

Divisa in due sezioni la mostra da una parte accosta la “Materia archeologica” pompeiana (che è anche il sottotitolo della sezione visitabile fino a marzo) a opere che in qualche modo le sono affini, mentre dall’altra la mette in rapporto diretto con le opere della collezione permanente del Madre (questa seconda sezione, sottotitolata “Materia archeologica: le collezioni”, sarà invece visitabile fino a settembre).

Il terzo piano si apre con una sala che ospita l’enigmatica, ma evocativa, opera di Adrián Villar Rojas Rinascimento, composta da frammenti e residui di materiali organici e non, attorno a essa si trovano attrezzi da lavoro, ceste e un rilievo fotografico di Pompei del 1944. È già da qui che inizia a farsi strada una sorta di turbamento ancora celato sotto gli spessi strati di ciò che la psicanalisi definirebbe forse rimozione.

In primo piano, l’opera di Adrián Villar Rojas. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
Sol LeWitt e pavimentazione musiva. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
Mimmo Paladino e calco in gesso di padre e figlio. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
Jannis Kounellis e mosaico di Ottaviano. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
Rebecca Horn e columelle pompeiane. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
Richard Serra, divinità femminile in terracotta e efebo in bronzo. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
Richard Serra e divinità femminile in terracotta. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

Poco più avanti, di fronte all’intensa opera di Roman Ondák in cui l’artista aggiunge alle vedute del Vesuvio in eruzione la propria figura di spalle nell’atto di osservare la scena, fa capolino il sublime che si ripresenterà ancora nel pre-romantico dipinto di Pierre-Jacques Volaire, ma anche in Vesuvius peep show nella densa sala dedicata al lavoro di Mark Dion. In questo groviglio di pensieri, forse ancora non del tutto consci, una parte importante la gioca la nostra relazione con il tempo, quello fissato nell’istante dell’eruzione del 79 che distrusse Pompei e quello trascorso, che ha lasciato le sue tracce sugli oggetti rimasti; entrambi si concretizzano nei reperti e nelle rovine.

Opera di Goshka Macuga. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

Il momento della distruzione si congela qui davanti ai nostri occhi attraverso le teche contenenti i resti della vita sepolta a Pompei, come i melograni o le conchiglie provenienti dal sito archeologico, mentre l’incedere del tempo è evocato dalle rovine. Ci sono le vedute di Jakob Wilhelm Hüber, le immagini scattate a Pompei da Nan Goldin o Mimmo Jodice, ma anche i frammenti di domus originarie e gli studi di Le Corbusier sulla case pompeiane. Tra i reperti si trovano quelli reali, come le olle, i bruciaprofumi o gli affreschi e quelli simulati dalle opere contemporanee, che in qualche modo sono forse resti d’oggi, come i vasi/ritratti di Goshka Macuga o l’ufficio fissato sotto una coltre di cemento da Jimmie Durham.

In primo piano l’opera di Jimmie Durham. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
In primo piano l’opera di Jimmie Durham. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
“Pompei@Madre. Materia Archeologica”, veduta della mostra al Madre, Napoli
Arazzo di Laure Provost e fotografie di Mimmo Jodice. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli
“Pompei@Madre. Materia Archeologica”, veduta della mostra al Madre, Napoli
“Pompei@Madre. Materia Archeologica”, veduta della mostra al Madre, Napoli
“Pompei@Madre. Materia Archeologica”, veduta della mostra al Madre, Napoli

Come scrive Marc Augé, “contemplare le rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a far esperienza del tempo, del tempo puro. Le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse. Ma fra i loro molteplici passati e la loro perduta funzionalità, quel che di esse si lascia percepire è una sorta di tempo al di fuori della storia a cui l’individuo che le contempla è sensibile come se lo aiutasse a comprendere la durata che scorre in lui.” Un tempo che non si esaurisce e che a volte trasforma la materia facendo per esempio germogliare i semi piantati nel progetto-giardino di Maria Thereza Alves.

In primo piano l’opera di Maria Thereza Alves. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli

Lo scorrere del tempo implica di per sé anche una presa di coscienza della caducità dell’essere vivente, come ci ricordano molto bene le opere di Roberto Cuoghi con i suoi animali in disfacimento. Ma quando si tratta dell’uomo, scrive Freud: “Ora come in passato il nostro inconscio si rifiuta di accogliere l’idea della propria mortalità”. Il fatto quindi di trovarsi davanti a uno scaffale pieno di ossa umane recuperate a Pompei durante una campagna ottocentesca, significa dover prendere atto della realtà senza mediazioni ed è a questo punto della mostra che il perturbante, non potendo più nascondersi, esce allo scoperto. Da qui in poi, lo riconosceremo ogni volta che si presenterà. Lo farà in modo prepotente per esempio nella sala che ospita l’opera ambientale di Mimmo Paladino, dove è stato posizionato il calco in gesso (realizzato secondo la tecnica messa a punto dall’archeologo Giuseppe Fiorelli proprio a Pompei) di un padre che sorregge il proprio bambino nella loro ultima azione prima di finire sepolti dall’eruzione.

In primo piano vetrina climatizzata con tassonomia di materiali organici provenienti da Pompei, a parete l’opera di Goshka Macuga e le piante parte del progetto di Maria Thereza Alves

Questo sentimento perturbante raggiungerà il suo climax nella sala in cui alcune columelle pompeiane (cippi tombali di forma antropomorfa) intrecciano un dialogo serratissimo e impressionante con l’installazione permanente di Rebecca Horn, dove specchi circolari si muovono lentamente davanti a teschi in ghisa e lampadine affisse alle pareti, creando un gioco di riflessi di grande impatto emotivo, enfatizzato dall’accompagnamento sonoro di una voce che produce in questo contesto una melodia quasi spirituale. Rapiti da questo ipnotico spettacolo, ci si rende forse conto del fatto che anche l’orecchio umano, a questo punto del percorso, è in grado di cogliere il messaggio.

  • Pompei@Madre. Materia Archeologica
  • 19 novembre 2017 – 30 aprile 2018
  • Massimo Osanna, Andrea Viliani
  • Madre. museo d’arte contemporanea Donnaregina
  • via Settembrini 79, Napoli