“Vendere arredi e promuovere una moderna cultura dell’abitare con mostre e altri strumenti a finalità educativa”.
Già alla fine degli anni Venti Alvar Aalto, per il Sanatorio di Paimio (1929–33), sviluppa un’intera gamma di arredi che trasforma il legno curvato in una materia morbida e inaspettatamente ergonomica. Tra questi spicca la poltrona Paimio (1932) pensata per facilitare la respirazione dei pazienti malati di tubercolosi attraverso l’inclinazione dello schienale e il disegno dei braccioli: un oggetto in cui forma e funzione coincidono in modo esemplare.
È però con lo sgabello 60 (1933) che Aalto compie la sua mossa più radicale. Lo sgabello, nato in occasione del progetto per la biblioteca di Viipuri (1930–35), è un elemento minimo, quasi anonimo: le tre gambe curve in legno lamellare diventano un “modulo” ricorrente nel suo lavoro.
Si arriva così al 1935, quando a Helsinki quattro giovani visionari – Aalto e la moglie Aino Marsio, la mecenate Maire Gullichsen e lo storico dell’arte Nils-Gustav Hahl – fondano Artek.
Il posizionamento del marchio è inscritto già nel nome: ar-tek, contrazione di arte e tecnologia, due poli che negli anni Venti e Trenta alimentano il dibattito modernista. È in questo clima che Walter Gropius conia il motto "art and technology – a new unity" individuando un’alleanza destinata a ridefinire il progetto e la produzione.
Nei mobili di Aalto come in quelli di Tapiovaara e degli altri autori […] la forma non è mai decorazione, ma condensazione di uso, tecnica e immaginario.
Fin dai primi altalenanti esordi alla fine degli anni Trenta, il marchio si impone grazie a un linguaggio progettuale innovativo e senza tempo: una semplicità essenziale e una funzionalità elegante, capaci di risuonare ancora oggi nel gusto contemporaneo.
Questo grazie a un’idea di fondo immutata: questi prodotti essenziali si sono voluti durevoli nei materiali, e pensati per accompagnare le persone nella loro quotidianità. Per fare ciò l’azienda ha intessuto una fitta rete di collaborazioni con architetti, designer e artisti che, progressivamente, si è allargata ben al di fuori dei confini nazionali.
Lo sgabello 60 (da non confondere con il modello Pall Sixty-1 dell’Ikea, che di gambe ne ha 4), così come la successiva sedia 69 (1935) sono allo stesso tempo razionali ed “empatici”, facilmente impilabili e ancora oggi in grado di dialogare con interni di epoche e latitudini diverse.
Attorno a questi archetipi si costruisce un catalogo che, dagli anni Quaranta in avanti, si arricchisce di “nuove voci”. Nel panorama finlandese spicca Ilmari Tapiovaara, autore della sedia Domus (1946) e del sistema Kiki (1960), una famiglia di sedute e divani dall’ossatura metallica sottile e dal volume compatto, pensata per gli spazi collettivi del welfare nordico: scuole, biblioteche, residenze studentesche. Con Tapio Wirkkala, ideatore tra gli altri del tavolo X-Frame (1958), la sperimentazione si concentra sulla leggerezza strutturale, mentre a Eero Aarnio si deve il semplice ma elegante sgabello da bar Rocket (1995), che traduce in chiave pop la tradizionale tornitura del legno.
Il dialogo di Artek con il design internazionale trova una tappa decisiva nella collaborazione con Enzo Mari. La Sedia n. 1 (1974) e legata al tema dell’“autoprogettazione”, mette in discussione il ruolo stesso del produttore: Mari invita chiunque a costruire in autonomia, con poche tavole standard, mobili robusti e funzionali. È un’idea che anticipa ciò che stava accadendo sull’altra sponda del Baltico attraverso il “modello svedese” dell’Ikea. "La forma corrisponde al significato di un oggetto e rappresenta, se ben fatta, la più alta qualità. Il problema della forma è ricercarne l’essenza", scrive Mari. Nei mobili di Aalto come in quelli di Tapiovaara e degli altri autori – fino alle collaborazioni contemporanee – la forma non è mai decorazione, ma condensazione di uso, tecnica e immaginario.
Nel 2025 Artek, “la fabbrica finlandese dei sogni”, spegne le sue 90 candeline. I suoi arredi continuano a popolare case, scuole, uffici e spazi pubblici, spesso con una discrezione che li rende quasi invisibili. Eppure, dietro questa apparente normalità, resta intatta l’intuizione dei fondatori: fare del design un dispositivo educativo.
