Scarcity and Supply

Con 417 opere e 315 artisti di 39 diverse nazionalità, la terza edizione del “Nanjing International Art Festival” ha evidenziato una scena geopolitica mobile, fluida, e di grande significato per tutti. 

HistoriCode Scarcity and Supply
Il Baijia Lake Museum, con i suoi quattro piani per un totale di 20.000 metri quadrati, è nato recentemente a Nanchino, Cina, dalla conversione di un centro commerciale e residenziale. L’intervento è avvenuto nell’arco di pochi mesi, con una tempistica tipicamente cinese. A dettarne i ritmi è stato il prospettarsi del “Nanjing International Art Festival” (12.11.2016–12.2.2017): una mostra giunta, per la verità, alla terza edizione, ma alla quale si è deciso di imprimere una svolta.
Wang Zheng, The President's Bedroom
In apertura: Li Linlin, Desire. Qui sopra: Wang Zheng, The President's Bedroom
Accolto nel Baijia Lake Museum, il Festival si è potuto manifestare nelle sue nuove ambizioni: 417 opere e 315 artisti di 39 diverse nazionalità coinvolti, con una netta preponderanza di cinesi. Il catalogo, ponderoso nelle sue 400 pagine, rispecchia le proporzioni della mostra. 
Il titolo del festival è “HistoriCode: Scarcity and Supply”. Yan Lugen, creatore del Baijia Lake Museum e attivatore dell’iniziativa, è un collezionista su larga scala da oltre 25 anni, proprietario di alcune gallerie ed editore di una rivista d’arte, oltre che imprenditore fortemente coinvolto nella rapida urbanizzazione della città e nella vita del Paese.
Ai Song, <i>Left Foot</i>, filo spinato, 182 × 80 × 180cm, 2016
Ai Song, Left Foot, filo spinato, 182 × 80 × 180cm, 2016

“HistoriCode: Scarcity and Supply” vuole, dunque, riflettere sulle questioni relative alla continuità storica o, viceversa, alla discontinuità; nonché sul fenomeno della globalizzazione con le sue decisive conseguenze sugli individui e sulla società, e sull’idea, complementare, di unicità; e, infine, su come questi concetti possano influire anche sull’espressione artistica. Per farlo, sempre con le parole di Yang Lugen, si adotta una prospettiva internazionale ampia e diversificata, partendo dal principio che nell’esperienza odierna la distinzione tra Oriente e Occidente non sia netta.

Si tratta quindi di rappresentare non una, ma tutte le posizioni. Coerentemente con questa premessa, il compito di indicare le opere da esporre è stato affidato a un comitato internazionale assai composito, che ha agito sotto la guida del curatore Lü Peng, con la co-curatela dell’italiana Letizia Ragaglia. Del comitato hanno fatto parte Heidi Ballet, dal Belgio, Katie Geha, dagli Stati Uniti, Lee Janguk e Nathalie Boseul Shin dalla Corea del Sud, Du Xiyun, Fu Xiaodong, Gu Chengfeng, He Guiyan e Carol Yinghua Lu dalla Cina.

 

Come risultato, le opere in mostra sono eterogenee, non solo dal punto di vista della provenienza, dell’età e della notorietà degli artisti o dei media impiegati – video, pittura, scultura, installazioni e fotografia –, ma anche dal punto di vista dell’approccio e del concetto. Anche i temi e i soggetti sono estremamente diversi: dalle considerazioni di carattere psicologico riguardanti i giovani e i loro miti nella società cinese attuale, come nel caso dell’installazione ambientale di Wang Zheng The President’s Room, a opere video come quella di Li Linlin, che riprende il primo piano di un cane che, attratto da un aroma irresistibile emanato da un microfono, cerca insistentemente di divorarlo, causando un rumore stridente; in questo modo, Linlin dà forma sensibile alla brama senza ritegno che rischia di fagocitare il mondo. E, ancora, alle immagini che affrontano temi scottanti, quali l’altissimo livello di inquinamento – nelle fotografie di Wu Di –, la troppo rapida e qualitativamente scarsa urbanizzazione – nelle opere di Ren Min, e il divario tra stili di vita, come emerge nel reportage di Lu Nan sulla vita rurale in Tibet.

La scelta di evitare una posizione curatoriale univoca ha dunque generato una mostra parcellizzata in termini d’impostazione e di display: “HistoriCode: Scarcity and Supply” rinuncia consapevolmente a un costrutto a favore di una struttura aperta e di un layout espositivo fluido. L’elemento che accomuna le opere è appartenere tutte al periodo successivo al 1990. Il quadro fornito riguarda, quindi, gli ultimi 27 anni con le loro sfaccettature e contraddizioni: siamo di fronte a uno specchio della situazione, non solo artistica, della Cina e dei suoi rapporti con il mondo in questo periodo di continuo e rapidissimo cambiamento. 
Wu Di, Scenery series
Wu Di, Scenery series
Non è un caso che nella mostra si avverta un senso di temporalità. La varietà, fino all’atomizzazione dello stile e del linguaggio fa pensare a un paese di tanta gente e di tante cose, a una situazione in cui logica, senso del tempo e dei limiti non siano unitari, e in cui la realtà risulti addirittura moltiplicata dalle connessioni virtuali, con le loro immagini in costante mutamento: la porzione giovane e più attiva della popolazione, che vive sempre connessa, si muove di fatto su una piattaforma virtuale. 

 

La mostra invita anche a considerare la storia dell’arte cinese degli ultimi decenni: dopo un periodo di totale isolamento e di contrazione dell’attività intellettuale dovuta alla Rivoluzione Culturale, occorsa tra il 1966 e il 1976, dal 1978 gli intellettuali e artisti cinesi hanno avuto l’opportunità di conoscere gli sviluppi della cultura umana al di fuori della Cina. Parte da qui una serie di esperimenti e di elaborazioni che vanno in direzione di un’integrazione rispetto all’arte del resto del mondo, soprattutto occidentale. Nel proprio velocissimo percorso, sistematicamente e senza preconcetti, gli artisti cinesi traggono elementi da diverse culture. Il fenomeno corrisponde alla crescita esponenziale della Cina in quegli anni. Il 1989 segna una battuta di arresto rispetto all’ottimismo degli anni precedenti, e genera una consapevolezza rispetto alle illusioni che hanno alimentato lo slancio precedente.

Non un orientamento univoco, dunque, ma una realtà che muove rapidamente, in direzioni diverse, quando non addirittura divergenti.

Alcuni elementi emergono tuttavia con una certa frequenza dalle opere in mostra; anzitutto l’uso della pittura e i riferimenti alla cultura tradizionale, seppur all’interno di una prospettiva di conoscenza globale. Queste tendenze probabilmente non sono estranee alla sede della mostra, Nanchino. Nanchino è una città fortemente legata a un passato culturale, di cui va tuttora orgogliosa. Ma il discorso può essere facilmente allargato all’intero panorama dell’arte cinese. In effetti già dagli anni Novanta, e a maggior ragione dal 2000, gli artisti avevano cominciato a recuperare lo stile artistico tradizionale, tralasciato durante la Rivoluzione Culturale. E a riferirsi a simboli antichi e recenti; come se percepissero il proprio tempo come una realtà in cui il passato non è del tutto dietro le spalle, il futuro è già cominciato e di conseguenza il presente si offre come un pastiche di passato e futuro.

Il fenomeno è dunque un dato di fatto; ma nel caso di “HistoriCode” l’accento posto sui riferimenti alle tradizioni del passato può essere anche interpretato come una scelta, volta a marcare una specificità della città di Nanchino rispetto ai centri cinesi che contano maggiormente in termini di arte contemporanea: Shanghai e Pechino. La sfida di Yan Lugen è infatti quella di inserire Nanchino e il suo Baijia Lake Museum tra i poli delle attività culturali cinesi, a livello nazionale e internazionale; connotandola come polo fondamentale proprio in nome della sua storia importante: oggi Nanchino è una città dinamica e ipermoderna di oltre otto milioni di abitanti. Ma malgrado lo stile di vita aggiornato e lo sviluppo industriale e immobiliare estremo, è considerata depositaria e tuttora vicina a tradizioni antiche.

 

La sfida è stata resa esplicita sin da subito, programmando l’apertura del festival in modo da seguire immediatamente l’inaugurazione delle principali rassegne artistiche di Shanghai. E in prospettiva c’è una Biennale. Il confronto con Shanghai e con Pechino motiva il grande investimento in corso.

Il museo è anche il fulcro di relazioni internazionali, quali quella riguardante l’Italia, con una sezione del Festival dedicata alla collezione del museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano, Museion: con opere di artisti tra i quali Allora & Calzadilla, Miroslaw Balka, Rossella Biscotti, Mircea Cantor, Claire Fontaine, Luca Vitone, Öyvind Fahlström; Goldschmied & Chiari, Teresa Margolles, Gordon Matta-Clark, Philipp Messner, Santu Mofokeng, Zanele Muholi, Deimantas Narkevicius, Maciej Toporowicz, Walid Raad / The Atlas Group.

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