I prototipi impossibili di Beaurin e Domercq

Sculture quasi spontanee, in bilico tra ostentata 'sgargianza' e visibilissima fragilità esplorano le potenzialità di materiali insoliti.

In un suo saggio sull'impossibile ricerca della lingua perfetta, Jorge Luis Borges ricorda, o inventa, un'antica enciclopedia cinese. In essa, i generi animali sono suddivisi così: (a) appartenenti all'Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che si agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche. È lecito dubitare che una suddivisione del genere sia stata formulata anche per gli oggetti creati dall'uomo. Se così fosse, tuttavia, di certo in un qualche punto del catalogo essa riporterebbe: (x) prodotti da Beaurin e Domercq.

Vincent Beaurin e Fabrice Domercq, artisti e designer, hanno concentrato intorno agli ultimi anni del secolo scorso e ai primi di questo una produzione a quattro mani di sculture quasi spontanee, quasi inclassificabili, in bilico fra l'ostentata 'sgargianza' e la visibilissima fragilità. Il riferimento biografico al design è subito evidente anche a livello estetico: non perché le piccole sculture di Beaurin e Domercq ricadano esplicitamente da uno dei due lati della linea, tutta teorica, che separa il design dalle arti visive, ma piuttosto perché rivelano una consapevolezza molto definita di tale separazione, relazionandosi a essa con ironia, spirito di contraddizione, provocatorietà. A uno sguardo disattento, infatti, queste opere potrebbero sembrare oggetti di design: il nitore cromatico, l'uso di tinte vivaci e l'apparente essenzialità delle forme concorrono a suggerire una progettazione tesa alla produzione seriale. In modo ancora più marcato, inoltre, la struttura stessa di tali oggetti sembra richiamarsi a una qualche destinazione funzionale, per quanto forse sublimata, o superata, da esigenze meramente compositive. In realtà, però, tale vicinanza all'oggetto d'uso si rivela immediatamente come una consapevole strategia di depistaggio.

Vincent Beaurin, <i>Plâtre</i>, 2001. Gesso, acquerello. 16,5 x 20 x 14 cm. Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi; © Vincent Beaurin by SIAE 2011. Photo © Patrick Gries.
Vincent Beaurin, Plâtre, 2001. Gesso, acquerello. 16,5 x 20 x 14 cm. Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi; © Vincent Beaurin by SIAE 2011. Photo © Patrick Gries.

Nel progetto congiunto di Beaurin e Domercq figurano, fra le altre cose, coppe o soprammobili composti da bastoncini di legno trovato, o fette di pane essiccate, o bucce di mandarino asciugate dal sole; totem quasi scheletrici, composti da elementi vegetali resi lignei dall'agire del tempo; pendenti, ombrelliformi, strutture cave o convesse composte da foglie, filo di cotone, frammenti. A queste si alterna una serie di sculture di Beaurin, dei monticelli convessi di gesso, smussati in superficie, evidentemente seriali ma pieni di imperfezioni: ognuno riporta una variazione, nella colorazione o nel contesto, rispetto agli altri. L'uso di bucce di mandarino intorno a una di queste sculture fornisce il raccordo esplicito fra le due serie.

Beaurin Domercq, Sans titre, 1999. Tecnica mista, 40 x 27 x 27 cm. Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi; © Beaurin Domercq by SIAE 2011. Phooto © Patrick Gries.

La presentazione degli oggetti, la loro forma, così come la decisione di inframmezzarli ad altri artefatti più 'convenzionali' richiama, appunto, la produzione seriale: ma la natura stessa degli elementi compositivi preclude questa possibilità. Si tratta, nella quasi totalità dei casi, di materiali deperibili, conformi più alle capricciose evoluzioni della vita biologica che non alle esigenze del designer. Il tentativo, o l'aspirazione, alla serialità è evidente nella strategia progettuale di Beaurin e Domercq: le fette di pane sono tagliate in dimensioni quasi regolari e ulteriormente normalizzate dall'applicazione metodica del colore; i frutti essiccati sono spogliati della polpa, ridotti alla struttura essenziale che li accomuna. Nessun espediente, tuttavia, riuscirà a nascondere la natura intrinsecamente precaria, quasi casuale, degli oggetti risultanti: e qui è, appunto, la loro natura. Sono sculture quasi loro malgrado, perché ogni cosa, in esse, aspira all'oggetto di design (al quale non a caso sono associate, nel contesto espositivo): la loro fabbricazione, tuttavia, sembra condannarle all'unicità.

Beaurin Domercq, Sans titre, 1999. Installazione di elementi con materiali diversi e dimensioni variabili. Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi; © Beaurin Domercq by SIAE 2011. Phooto © Patrick Gries.

L'esplorazione delle potenzialità costruttive e progettuali di materiali insoliti, fragili, condannati all'imperfezione, era anche al cuore del Vorkurs concepito da László Moholy-Nagy per il Bauhaus, i cui principi sarebbero stati in seguito rivisti, ripresi e ampliati dai corsi di Basic Design tenuti da Josef Albers al Black Mountain College. In essi, agli studenti veniva chiesto di progettare delle strutture complesse senza utilizzare null'altro che il materiale di partenza per gli incastri: un materiale grezzo, semplice, insolito, come carta, cartoncino, balsa. Era un modo per familiarizzarli con la "natura intima" dei materiali, con le loro potenzialità, con le loro debolezze.

Vincent Beaurin, 2000. Acquerello, 24 x 31 cm. Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi. Photo © Vincent Beaurin by SIAE 2011.

I risultati, spesso spettacolari nella loro complessità ed eleganza, partecipavano sempre tuttavia di una sorta di estrema fragilità, la precarietà del prototipo: era evidente, infatti, che si trattava di costruzioni impermanenti per loro stessa natura. Della stessa precarietà, della stessa impermanenza, partecipano le sculture di Beaurin e Domercq: anch'esse sono esplorazioni delle potenzialità di materiali insoliti. Nessuna produzione in serie, tuttavia, e nessuna applicazione successiva potranno riscattarle dalla loro fragilità: è questo, in fondo, che sono. Vincenzo Latronico

Vincent Beaurin, Sans titre, 2000. Gesso, acquerello, 17 x 21 x 21 cm. Collection Fondation Cartier pour l’art contemporain, Parigi; © Vincent Beaurin by SIAE 2011. Photo © Patrick Gries.