Un guardrail divide a metà la grande sala della Galleria d'Arte Moderna di Bergamo e, quando meno te lo aspetti, emette dei suoni. Sulla parete in fondo alla stanza, una foto di cinque metri per sei raffigura un parcheggio abbandonato in zona Famagosta a Milano. E, ancora, luci stroboscopiche e un lampadario fatto di denti di squalo sono appesi al soffitto, mentre centinaia di collage sono imbullonati a una parete. Curata da Alessandro Rabottini, "Raptus" è la più grande mostra mai dedicata al lavoro di Marcello Maloberti. "È una sorta di autoritratto", racconta l'artista in un'intervista a Domus.

Nelle tue due mostre precedenti – 'Set' e 'Tagadà' – hai avuto a che fare con i pazienti dell'ospedale psichiatrico di San Colombano al Lambro e con un happening davvero coinvolgente il cui nome ricordava quello di una giostra. Che cosa dobbiamo aspettarci invece da questa personale alla Gamec di Bergamo?
Queste tre mostre compongono una sorta di trilogia. Sono un autoritratto con alcuni elementi ricorrenti. Tuttavia a differenza delle prime due mostre, che erano più giocose e più vicine al tema del luna park, credo che qui ci sia di fondo una certa inquietudine. Penso, per esempio, al guardail – vero – che taglia in due la galleria e ogni tanto emette dei suoni, come quando il vecchio frigorifero di casa si anima e trema all'improvviso o, ancora, all'effetto di luci strobo bianche. La mostra avrà un senso un po' nervoso e inquietante. È come se rappresentasse una realtà instabile, un quotidiano nomadico.
Il tema di base – il filo che tiene insieme tutti i lavori – è il collage, che per me è un modo di pensare e vedere la realtà. Alla Gamec ci sarà una parete con cento collage, avvitati sia su muro sia su legno. Ci saranno dei collage di carta, fatti ritagliando immagini da vecchie riviste, soprattutto National Geographic dagli anni Ottanta fino a oggi. Per questo, l'ho definita una mostra-autoritratto: perché io penso molto per immagini e vivo di immagini più che di parole. Il collage mi serve anche per perdere il controllo: parti, ma non sai dove arrivi.

Puoi spiegare come nasce il titolo? Perché raptus?
Potrei dire che il mio raptus è il taglio, che è anche il senso del mio lavoro, il mio modo di pensare, la mia testa. Io taglio ormai da una decina d'anni.

È un raptus molto ponderato, visto che va avanti da così tanti anni
Per me i raptus sono più che altro dei tic e delle manie. Il collage identifica anche il sogno, è un modo di passare da una cosa all'altra.

È una mostra che ha con lo spazio un rapporto molto progettuale…
È un bello spazio, ma è anche complicato, perché è molto alto e lungo. Ho cercato di tirarne fuori le qualità, lavorando molto sull'altezza. C'è un lampadario che scende dall'alto e che io definisco un oggetto un po' malato. È fatto interamente di denti di squalo (finti naturalmente), è una specie di animale preistorico. C'è poi una pista lunga 12 metri fatta tutta di accendini allineati per terra. Una grande foto (5 metri per 6) scattata in un cantiere a Milano, in zona piazzale Lugano, è appesa sulla parete di fondo. Poi ci sono io, alto tre metri, che sollevo una tigre di ceramica. Si tratta, naturalmente, di un'immagine ironica.

Ci sarà una performance?
In questa mostra ce ne sarà soltanto una, la sera dell'inaugurazione (il 2 aprile), durante la quale un gruppo di performer terrà in mano un telo optical bianco e nero a formare delle stanze nello spazio. Non impartisco loro ordini precisi, propongo una costante e loro interagiscono con il pubblico.