Chrysler Building, l’icona “sfacciata” dell’Art Déco è di nuovo in cerca di proprietario

Edificio più alto del mondo alla sua nascita nel 1930, il grattacielo che non trova pace tra bisogno di manutenzione e continui cambi di mano rappresenta più dell’Empire l’anima di una New York fatta di estremi.

Completato a cavallo della crisi del 1929 “no matter what”, dotato di un suo codice postale dedicato – come pochi altri edifici – titolare dell’ambìta carica di edificio più alto del mondo nel suo primo anno di vita, il 1930, oltre che progenitore di tutti i “supertall” del globo, il primo a superare i 300 metri di altezza. Il suo coronamento che ha tutto di decorativo e niente di (visibilmente) tecnico, con quella sua forma da bottiglia del Campari – vorrete consentire l’appropriazione italiana – fa splendere i raggi di un sole elettrico da entusiasmo del progresso attraverso i 7 livelli concentrici di una guglia rivestita in scintillante acciaio.
Perché se l’Empire State Building è un volto istituzionale della città, buono per ogni occasione, il Chrysler Building, di cui stiamo parlando, ne urla a tutto volume i chiaroscuri, il carattere vero, che di medio non ha nulla, e che si esprime solo per picchi emozionali, o altrettanto emozionali baratri.

Foto Harrison Lugard da Unsplash

Non importa a questo punto che si tratti della più alta struttura in acciaio rivestita in mattoni (e poi di nuovo in metallo; precursore del postmoderno con 50 anni d’anticipo), o altri primati tecnici: il suo primato rimane, e molto probabilmente rimarrà, culturale. 
Questa architettura di William Van Alen è nata in un periodo e in uno spirito di rilanci al rialzo: la sua altezza è stata aumentata più volte, dalla prima idea alla realizzazione, così come la sua storia è quella di una commessa che prende forma sotto un brand incarnato da un individuo con nome e cognome. Walter Chrysler, mister Chrysler, in un gusto da partita di Monopoli. È talmente un’impresa individuale che non viene nemmeno costruito come sede dell’azienda automobilistica: è un investimento di Walter destinato ai suoi figli.

Foto Sergii Figurnyi da Adobe Stock

E c’è un aggettivo inglese per definirlo, nella forma e nella sostanza: unapologetic. Potremmo dire “sfacciato” in italiano, ma renderebbe solo a metà.
Si aggancia alla città fin nel sottosuolo: la stazione del métro di Grand Central ha un’uscita diretta nel sotterraneo della sua lobby, una caverna di acciaio, pietra nera e metafisiche appliques al neon dove, ancora poco fa, si poteva fare una visita alla bottega del lustrascarpe. Un luogo che fa del Chrysler anche una frontiera, visto che è di fatto l’uscita della metropolitana per le Nazioni Unite (non si può avvicinare di più: è territorio internazionale).
Poi, una volta a terra, è proprio la lobby a raccontare tutto questo, tra travertini senesi gialli e graniti africani rossi, ogni elemento funzionale trasformato in una nota di una monumentale composizione decorativa, un manuale di art déco: dagli orologi, ai quadranti degli ascensori, alle lampade e a un wayfinding quasi futuristico. 

Chrysler Building interno. Foto Wikimedia Commons

I chiaroscuri però il Chrysler li porta con sé lungo tutta la sua storia e non solo nelle decorazioni drammatiche. Partiamo proprio da questo aspetto materiale: come ogni grande icona, l’edificio dichiarato landmark cittadino a fine ’70 – e meno male, vista la tendenza di New York a riscriversi di continuo – necessiterebbe notoriamente di aggiornamenti perlomeno impiantistici: svariate note di colore sulla stampa americana hanno recentemente raccontato di tubi da cui ormai sgorga acqua non potabile.

Foto Fabien Bazanegue/Wirestock da Adobe Stock

E poi c’è la questione della proprietà. Il terreno è della Cooper Union, quindi oltre a comprare l’edificio, chi decide di diventarne proprietario deve anche corrispondere all’università un affitto di oltre 30 milioni di dollari. Come riportato sempre dalla stampa, l’ultimo proprietario del grattacielo – ma inquilino del terreno, e comunque da tempo non più rispondente al nome Chrysler – aveva sì portato via il grattacielo a 151 milioni (da che nel 2008 se ne sarebbero chiesti 800: una svendita), ma è stato appena sfrattato per insolvenza sull’affitto, con una ingiunzione da 21 milioni. L’immobiliare Savills è ora incaricato dall’università di mettere in vendita l’edificio, ad un prezzo ancora non annunciato, ma con certezza per il nuovo residente di dover portare una “nuova visione” per l’edificio, e garantire un affitto destinato ad aumentare.

È ciò che può succedere a un’icona sfacciata, in tempi globali dominati dal freddo calcolo. Ricordiamo però che in fondo anche lei era nata in tempi di freddo calcolo: solo, quella volta si trattava di calcoli che guardavano verso l’alto.

Chrysler Building interno. Foto Wikimedia Commons

Immagine di apertura: Foto kropic da Adobe Stock

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