La casa è perfetta. O, almeno, lo sembra. In Holland (2025), thriller psicologico diretto da Mimi Cave, tutto comincia proprio da qui: da un interno impeccabile, ordinato come una vetrina e silenzioso come una trappola. È in questa scena primaria, in questo set borghese e femminile, che si consuma la lenta discesa della protagonista Nancy Vandergroot (Nicole Kidman) nel territorio del sospetto e della perdita. Ambientato nella cittadina di Holland, Michigan – ricostruita con una perfezione maniacale tra set e modellini – il film è una riflessione visiva e architettonica sulla doppiezza del quotidiano: tutto è in ordine, tutto è conforme, e proprio per questo, tutto è perturbante.
La casa perfetta nasconde il caos: perché Holland è uno dei film dell’anno
C’è un film che forse ti sei perso e devi recuperare: è Holland di Mimi Cave, dove la regia diventa architettura: la casa borghese è un diorama inquietante, lo spazio registra il trauma e i sogni raccontano ciò che la realtà non osa dire.
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- Silvana Annicchiarico
- 19 maggio 2025
La protagonista Nancy è un’insegnante, madre e moglie devota, ma soprattutto abitante modello di un quartiere che pare uscito da un rendering. Le case sono coloniali, simmetriche, silenziose. I prati rasati, le recinzioni di legno perfette. L’interno domestico è una coreografia di superfici linde, angoli a squadra, mobili coordinati. Un mondo che sembra disegnato per non lasciare traccia. È un’estetica suburbana al limite della sterilità, in cui ogni edificio è una vetrina e ogni vetrina una maschera. Anche l’abitazione di Nancy sembra un palcoscenico, o un teatro dell’apparenza: le carte da parati a motivi floreali, i paralumi in velluto, la predominanza dei verdi salvia e dei rosa polverosi disegnano uno spazio dove tutto è grazia e controllo. Anche l’abbigliamento di Nancy si coordina all’ambiente: nella prima cena in famiglia, la vediamo con un dolcevita rosa antico sotto un maglioncino verde chiaro, come un’emanazione vivente della palette domestica.
La sala da pranzo è uno degli apici formali del film. Le inquadrature frontali, simmetriche, rivelano una regia che compone lo spazio come se fosse un set teatrale a sipario aperto. Tendaggi pesanti rosa scuro incorniciano il tavolo, che è illuminato da uno chandelier centrale. Sul fondo, due lampade da tavolo fanno da contraltare a un grande vaso decorativo. Le finestre velate da tende bianche rendono ogni ora del giorno simile a una messa in scena. Non è una casa: è un diorama abitato.
I modelli in scala, le miniature, tornano come tema centrale in Holland. Il plastico ferroviario costruito dal marito e dal figlio di Nancy è una riproduzione dettagliatissima della cittadina: un mondo parallelo, silenzioso, che finisce per rivelare più cose di quanto sembri. Il plastico è l’archivio dell’inconscio, e anche l’oracolo. È in quel modellino che Nancy scopre dettagli inquietanti, allusioni visive, simulazioni del reale che anticipano la scoperta della doppia vita del marito. Ma è nei sogni che l’equilibrio si incrina e implode. In una delle sequenze oniriche più potenti del film, Nancy cammina per una Holland notturna e deserta, dove corpi umani-manichini rotolano e si ammassano ai suoi piedi. Le case sembrano un modellino ingigantito, un plastico distorto, sommerso dall’acqua fino alle finestre. La prospettiva è falsata, le proporzioni alterate. È come se l’intera cittadina fosse affondata in una vasca da esposizione. La realtà è diventata uno scenario museale disfunzionale, come un diorama che ha perso la sua funzione.
È come se il linguaggio dell’architettura smettesse di rispondere alla logica della funzione e iniziasse a obbedire a quella del subconscio: la casa come amplificazione del disagio, la città come rifrazione del rimosso.
Ma il vero scarto estetico arriva in una scena che, a suo modo, è un manifesto visivo. Nancy prepara un polpettone. Lo decora con una linea di ketchup a forma di cuore: un gesto banale, quasi da manuale della brava casalinga anni Cinquanta. Ma poi, sovrappensiero, schiaccia la bottiglia fino a svuotarla, ricoprendo il cuore con un’esplosione rossa, densa, disturbante, che trasforma la carne in una macchia sanguinante. Il gesto è disturbante perché non è violento: è automatico, passivo, come se il corpo sapesse prima della mente che qualcosa non va. Nancy prende il polpettone e cerca di salvare l’ordine: rimuove il ketchup con le mani, lo reimpasta, schiaccia e sposta la carne sul piano della cucina immacolata. Il contrasto tra le mani nude, la carne cruda, il rosso che sporca e la superficie incontaminata della cucina è potentissimo. È il primo vero “errore visivo” del film. La scena interrompe la geometria perfetta dell’ambiente: è il momento in cui l’estetica del controllo viene violata, in cui l’architettura dell’apparenza si sporca, si sfalda, si fa viva.
Qui Cave si avvicina al lavoro di Todd Haynes, nel suo uso del décor come gabbia dorata; di David Lynch, in particolare Inland Empire, dove i sogni non hanno confini e la realtà è costruita come una serie di scenografie mentali; e di Ari Aster, nella precisione del quadro che implode nel dettaglio organico, viscerale: come in Hereditary, anche qui la casa è un contenitore di dolore rimosso, un organismo vivente che registra tutto e tace. In Holland, la regista firma una regia che è architettura: disegna la follia come uno spazio a misura d’uomo, un luogo dove nulla è fuori posto se non l’anima di chi ci abita. E quando lo spazio si deforma – nei sogni, nei plastici, nei gesti automatici – capiamo che la vera casa non è mai quella di mattoni. È quella nella mente. E a volte, è lì che brucia per prima.
Immagine di apertura: Jude Hill in Holland (Mimi Cave, 2025) ©Amazon Content Services LLC Credits: Jaclyn Martinez/Prime