La casa perfetta nasconde il caos: perché Holland è uno dei film dell’anno

C’è un film che forse ti sei perso e devi recuperare: è Holland di Mimi Cave, dove la regia diventa architettura: la casa borghese è un diorama inquietante, lo spazio registra il trauma e i sogni raccontano ciò che la realtà non osa dire. 

La casa è perfetta. O, almeno, lo sembra. In Holland (2025), thriller psicologico diretto da Mimi Cave, tutto comincia proprio da qui: da un interno impeccabile, ordinato come una vetrina e silenzioso come una trappola. È in questa scena primaria, in questo set borghese e femminile, che si consuma la lenta discesa della protagonista Nancy Vandergroot (Nicole Kidman) nel territorio del sospetto e della perdita. Ambientato nella cittadina di Holland, Michigan – ricostruita con una perfezione maniacale tra set e modellini – il film è una riflessione visiva e architettonica sulla doppiezza del quotidiano: tutto è in ordine, tutto è conforme, e proprio per questo, tutto è perturbante.

Holland poster art. Courtesy of Prime ©Amazon Content Services LLC

La protagonista Nancy è un’insegnante, madre e moglie devota, ma soprattutto abitante modello di un quartiere che pare uscito da un rendering. Le case sono coloniali, simmetriche, silenziose. I prati rasati, le recinzioni di legno perfette. L’interno domestico è una coreografia di superfici linde, angoli a squadra, mobili coordinati. Un mondo che sembra disegnato per non lasciare traccia. È un’estetica suburbana al limite della sterilità, in cui ogni edificio è una vetrina e ogni vetrina una maschera. Anche l’abitazione di Nancy sembra un palcoscenico, o un teatro dell’apparenza: le carte da parati a motivi floreali, i paralumi in velluto, la predominanza dei verdi salvia e dei rosa polverosi disegnano uno spazio dove tutto è grazia e controllo. Anche l’abbigliamento di Nancy si coordina all’ambiente: nella prima cena in famiglia, la vediamo con un dolcevita rosa antico sotto un maglioncino verde chiaro, come un’emanazione vivente della palette domestica.

Nicole Kidman in Holland (Mimi Cave, 2025) ©Amazon Content Services LLC Credits:Jaclyn Martinez/Prime

La sala da pranzo è uno degli apici formali del film. Le inquadrature frontali, simmetriche, rivelano una regia che compone lo spazio come se fosse un set teatrale a sipario aperto. Tendaggi pesanti rosa scuro incorniciano il tavolo, che è illuminato da uno chandelier centrale. Sul fondo, due lampade da tavolo fanno da contraltare a un grande vaso decorativo. Le finestre velate da tende bianche rendono ogni ora del giorno simile a una messa in scena. Non è una casa: è un diorama abitato.


I modelli in scala, le miniature, tornano come tema centrale in Holland. Il plastico ferroviario costruito dal marito e dal figlio di Nancy è una riproduzione dettagliatissima della cittadina: un mondo parallelo, silenzioso, che finisce per rivelare più cose di quanto sembri. Il plastico è l’archivio dell’inconscio, e anche l’oracolo. È in quel modellino che Nancy scopre dettagli inquietanti, allusioni visive, simulazioni del reale che anticipano la scoperta della doppia vita del marito. Ma è nei sogni che l’equilibrio si incrina e implode. In una delle sequenze oniriche più potenti del film, Nancy cammina per una Holland notturna e deserta, dove corpi umani-manichini rotolano e si ammassano ai suoi piedi. Le case sembrano un modellino ingigantito, un plastico distorto, sommerso dall’acqua fino alle finestre. La prospettiva è falsata, le proporzioni alterate. È come se l’intera cittadina fosse affondata in una vasca da esposizione. La realtà è diventata uno scenario museale disfunzionale, come un diorama che ha perso la sua funzione.

È come se il linguaggio dell’architettura smettesse di rispondere alla logica della funzione e iniziasse a obbedire a quella del subconscio: la casa come amplificazione del disagio, la città come rifrazione del rimosso.

Mimi Cave, Holland, 2025 ©Amazon Content Services LLC Credits: Jaclyn Martinez/Prime

Ma il vero scarto estetico arriva in una scena che, a suo modo, è un manifesto visivo. Nancy prepara un polpettone. Lo decora con una linea di ketchup a forma di cuore: un gesto banale, quasi da manuale della brava casalinga anni Cinquanta. Ma poi, sovrappensiero, schiaccia la bottiglia fino a svuotarla, ricoprendo il cuore con un’esplosione rossa, densa, disturbante, che trasforma la carne in una macchia sanguinante. Il gesto è disturbante perché non è violento: è automatico, passivo, come se il corpo sapesse prima della mente che qualcosa non va. Nancy prende il polpettone e cerca di salvare l’ordine: rimuove il ketchup con le mani, lo reimpasta, schiaccia e sposta la carne sul piano della cucina immacolata. Il contrasto tra le mani nude, la carne cruda, il rosso che sporca e la superficie incontaminata della cucina è potentissimo. È il primo vero “errore visivo” del film. La scena interrompe la geometria perfetta dell’ambiente: è il momento in cui l’estetica del controllo viene violata, in cui l’architettura dell’apparenza si sporca, si sfalda, si fa viva.

Mimi Cave, Holland, 2025 ©Amazon Content Services LLC

Qui Cave si avvicina al lavoro di Todd Haynes, nel suo uso del décor come gabbia dorata; di David Lynch, in particolare Inland Empire, dove i sogni non hanno confini e la realtà è costruita come una serie di scenografie mentali; e di Ari Aster, nella precisione del quadro che implode nel dettaglio organico, viscerale: come in Hereditary, anche qui la casa è un contenitore di dolore rimosso, un organismo vivente che registra tutto e tace. In Holland, la regista firma una regia che è architettura: disegna la follia come uno spazio a misura d’uomo, un luogo dove nulla è fuori posto se non l’anima di chi ci abita. E quando lo spazio si deforma – nei sogni, nei plastici, nei gesti automatici – capiamo che la vera casa non è mai quella di mattoni. È quella nella mente. E a volte, è lì che brucia per prima.

Immagine di apertura: Jude Hill in Holland (Mimi Cave, 2025) ©Amazon Content Services LLC Credits: Jaclyn Martinez/Prime