Squid Game, ovvero la gamification come design della società

La serie più vista di sempre su Netflix è lo specchio di un paese, la Corea del Sud, ma anche di un modello relazionale, basato su gioco e competizione, in cui oramai ci riconosciamo globalmente.

Il battle royale, come genere narrativo, non viene dalle economie asiatiche in crescita. “È” le economie asiatiche in crescita.
Sono le storie in cui tante persone sono le une contro le altre, con più o meno regole, in combattimenti mortali con un solo vincitore. L’Occidente l’ha ripreso notoriamente con Hunger Games (romanzi e poi serie di film) ma già solo il nome viene da un film giapponese, intitolato per l’appunto Battle Royale (in cui degli studenti vengono portati su un’isola per un gioco mortale a opera della classe degli insegnanti anziani, come forma di repressione delle giovani generazioni), e poi si è riversato nei videogiochi e in altri racconti, fino all’apoteosi di Squid Game, la serie Netflix più vista di sempre.

@YOUNGKYU PARK - Netflix

In queste storie di fantasia su competizioni brutali di massa c’è tutto il nuovo mondo delle tigri asiatiche, paesi molto popolati in cui negli ultimi 30 anni la galoppata economica ha portato generazioni su generazioni ad una forma di competizione estrema, innalzamento del tasso di suicidi per una pressione sociale difficile da sostenere e una società in cui la sopraffazione per emergere è la regola. Le storie in forma di battle royale parlano ogni volta di qualcosa di diverso, ma l’idea di farlo tramite una massa di cittadini che per un fine unico si massacrano a vicenda senza riguardo per il prossimo è in sé la metafora di quella società. A questo Squid Game aggiunge uno strato coreano, la gamification come design della società.

Non è un mistero che il mondo degli e-sports in Corea Del sud sia ad un altro livello rispetto al resto del pianeta. La competizione videoludica professionale è fortissima, seguitissima e soprattutto è un giro economico di sponsor molto più grande che altrove, perché ha un pubblico molto più grande che altrove. Squid Game usa il gioco come metafora. Ancora di più usa il battle royale (inteso sia come genere cinematografico che come genere videoludico) come metafora. È Fortnite, tutti insieme su un’isola a farsi fuori perché ne rimanga uno solo (o se vogliamo ad essere più precisi è PUBG, altro gioco quasi uguale a Fortnite, venuto prima e programmato da un coreano). Solo trasferito in un’impossibile vita reale.

Quella degli e-sports è una nuova forma di agonismo in cui non conta la massa muscolare, in cui uomini e donne sono sullo stesso piano (come del resto nei giochi mortali di Squid Game) e in cui la posta in palio, se sei un atleta di un paese come la Corea Del Sud in cui la federazione degli sport elettronici esisteva già nel 2000, è altissima.

@YOUNGKYU PARK - Netflix

Questa forse è la chiave migliore per i coreani per leggere se stessi: competizione di massa e competizione in forma di gioco. Il fatto che non si tratti di giochi digitali ma giochi analogici vecchio stampo è un’eccezionale presa in giro, un modo di canzonare il business degli e-sports. Diverse persone sono in gara per cifre pazzesche ma invece di essere grandissimi gamer in videogame complessi, sono persone ordinarie, anche anziani, in un-due-tre-stella o l’intaglio preciso di un biscotto di caramello. Ci sarebbe da ridere se non fosse tutto realmente mortale. Mentre gli atleti di e-sports muoiono continuamente nei videogiochi senza conseguenze, nei giochi infantili di Squid Game si muore una volta sola. Definitivamente.

E non a caso allora la serie è un grande inno alla nostalgia, i giochi non solo sono da bambini ma avvengono in contesti infantili e con oggetti (i biscotti di caramello), tradizionali coreani, artefatti che i coreani riconoscono come parte del proprio passato.

Qualche anno fa si parlava molto di gamification nelle nostre società, cioè di come un po’ tutto stesse rubando tecniche e soluzioni ai videogiochi, specie nella comunicazione. I punteggi dei ristoranti su Tripadvisor, i badge da sbloccare nelle applicazioni, i voti agli autisti di Uber e le classifiche che ne derivano. Quel discorso e quella parola sono un po’ scomparsi ma Squid Game sembra affermare involontariamente che benché di gamification non parliamo più lo stesso questa è ovunque, che tutto funziona secondo le regole dei videogame e, nella serie, anche il successo e la possibilità di risolvere i propri problemi economici passa per le regole dei videogame.

C’è il puzzle game, cioè il gioco di calma e riflessione (quello del biscotto), c’è il gioco di piattaforma in cui come Super Mario si salta di blocco in blocco (quello del ponte), e poi il gioco di forza da risolvere con la tecnica e non solo con i muscoli e via dicendo.

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Le ragioni del successo e della capacità di Squid Game di parlare a tutti in tutto il mondo va cercato sicuramente nella bontà dell’idea e nella capacità del meccanismo narrativo di attirare e tenere avvinti, ma anche nel fatto che racconta in modo diverso qualcosa che tutti possono notare. Il sistema economico in cui viviamo per anni ha estremizzato la competitività del libero mercato, in paesi come la Corea è solo più evidente perché è stato un cambio più repentino. Squid Game dice che accedere all’elite del benessere nella società coreana è un’impresa brutale, in cui non esiste solidarietà sociale e in cui viene richiesto di affossare gli altri per emergere, i posti al sole sono pochi e non tutti si potranno sedere. Non è certo l’unico racconto (sia serie o sia film) a dircelo, è semmai uno dei pochissimi ad aver capito che i videogiochi sono la metafora migliore e più sottilmente ironica per raccontarlo.

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