Tavoli sotto cui potresti camminare, pile di piatti alte quanto colonne, sedie che viste dal dal basso potrebbero tranquillamente sembrare torri. Se queste immagini ti sono familiari con ogni probabilità sei già finito, senza saperlo, giù per la tana del Bianconiglio e a portartici è stato Robert Therrien (1947–2019), lo scultore americano che ha rivoluzionato il concetto di scultura trasformando l’ordinario in straordinario, l’infanzia in architettura, la quotidianità in vertigine.
La forza concettuale dell'opera di Therrien risiede nell'uso di immagini familiari e quotidiane, rese a volte con rigorosa precisione, altre volte con espressiva astrazione. La sua arte evoca un senso di riconoscimento, ma si sottrae a interpretazioni fisse, creando un'esperienza al tempo stesso intima ed enigmatica.
Paul Cherwick e Dean Anes, Robert Therrien Estate
Dagli anni di formazione al riconoscimento internazionale
Nato a Chicago, Therrien giunge per la prima Los Angeles negli anni Settanta, per completare il suo MFA alla University of Southern California ed è qui che sviluppa il suo linguaggio personale, introverso e poetico, così lontano dai canoni eroici del minimalismo.
Il momento di svolta arriva qualche anno dopo, nel 1984, quando Therrien tiene la sua prima grande personale al MOCA di Los Angeles, appena inaugurato. In quegli anni la città stava affermandosi come un nuovo polo dell’arte contemporanea americana, con l’apertura di nuovi musei e una scena in fermento.
Una mostra che, in giovane età, gli garantisce grande visibilità e lo porta, già negli anni Ottanta e Novanta, a essere rappresentato da due figure chiave del sistema dell’arte: Leo Castelli a New York – storico gallerista di Rauschenberg, Johns e Lichtenstein – e Konrad Fischer a Düsseldorf, pioniere europeo del concettualismo e del minimalismo.
Pur facendo ormai ufficialmente parte dei circuiti internazionali più rilevanti, Therrien mantiene una posizione appartata, coltivando una ricerca silenziosa, raffinata e ossessiva, centrata sull’esperienza personale e l’immaginario domestico.
La svolta monumentale
Nei primi anni Novanta, la sua pratica cambia radicalmente: quella piccola fissazione per gli oggetti del quotidiano prende definitivamente il sopravvento. Le opere si fanno più grandi, fisicamente coinvolgenti, più figurative e meno allusive. Therrien abbandona le piccole sculture fatte a mano in favore di installazioni monumentali realizzate con tecniche industriali. Una scelta che, pur sembrando formale, è anche profondamente simbolica:
“Man mano che il mio lavoro diventa meno astratto nell'aspetto – la forma deriva più chiaramente da oggetti comuni – si circonda sempre più di astrazioni, intese come associazioni e idee a cui può rimandare”, spiegava l’artista.
A differenza del minimalismo, che aveva ridotto per anni la forma all’essenzialità geometrica perseguendo un’estetica impersonale e anti-espressiva, Therrien lavora con archetipi domestici carichi di memoria, esperienze e una sottile malinconia.
In Under the Table (1994), costruisce un tavolo gigantesco che altera radicalmente la scala dell’esperienza dello spettatore. Ma non si tratta solo di un gioco percettivo: è una precisa evocazione fisica dell’infanzia, capace di creare un doppio della realtà—sfalsata, perturbante, vicina e lontana, familiare e aliena al tempo stesso.
Robert Therrien amava scherzare dicendo che la sua opera più grande era un buco della serratura alto appena 12 centimetri — ovvero cinquanta volte più grande di uno vero. Il senso della battuta? Che la scala, più che una questione oggettiva, dipende dalle aspettative e dalle relazioni che instauriamo con gli oggetti. Prendiamo un altro esempio: un tavolo, se è troppo grande, diventa uno spettacolo. Se è troppo piccolo, somiglia a un giocattolo.
Ed Schad, curatore della mostra Robert Therrien: This is a Story al The Broad, Los Angeles, dal 22 novembre 2025 al 6 aprile 2026
Una poetica dell'intimità
Lontano dal Pop e dal ready-made duchampiano in senso stretto, Therrien costruisce un lessico personale fatto di oggetti archetipici, silenzi, attese, deviazioni sensoriali.
Come nota la curatrice Lynn Zelevansky, la sua “è un’arte del paradosso, ma anche dell’equilibrio. Le proporzioni perfette, riprodotte in scala, suggeriscono la razionalità dell'operazione, mentre le associazioni narrative raccontano interiorità e memoria.”
E infatti anche le sue opere più semplici, come No Title (Snowman) (1982–98), una figura fatta di palle di neve in gesso alta appena 91 cm, riescono a evocare un tempo perduto: l’infanzia come ricordo sfuggente, la cui memoria è sempre necessariamente costruita a posteriori; la scultura come mezzo di resistenza al dissolversi delle cose.
L'eredità, nella grande mostra a Los Angeles
Oggi Therrien è riconosciuto come una delle voci più originali e appartate della scultura americana post-minimalista. Le sue opere fanno parte di collezioni prestigiose come il San Francisco Museum of Modern Art, la Tate Modern di Londra, il Centre Pompidou di Parigi e il MoMA di New York. In Italia è presente nella collezione Panza di Biumo e, nel 2016, alcuni suoi disegni preparatori sono stati esposti nella mostra “Prototypology” da Gagosian a Roma.
Nel 2006, le sue celebri sedie sovradimensionate furono utilizzate come scenografia per la sfilata dei 40 anni del brand Marc Jacobs. Una coincidenza visiva che richiama certi fotomontaggi realizzati dallo stesso Therrien—non legati alla moda ma pensati come mock-up per i collezionisti—dove modelle editoriali si aggirano tra cucine abitate da stoviglie giganti. In entrambi i casi, lo sguardo si muove tra mondi quotidiani e proporzioni fuori controllo.
Ora anche una grande istituzione come il The Broad sceglie di rendere omaggio alla sua opera. Dal 22 novembre 2025 al 5 aprile 2026, il museo di Los Angeles presenterà Robert Therrien: This is a Story, la più ampia retrospettiva mai realizzata sull’artista. Con oltre 120 opere, molte delle quali mai esposte prima, la mostra ne ripercorre l’intero percorso, restituendo l’influenza che ha avuto su generazioni di artisti e designer della West Coast. Un’occasione per entrare – ancora una volta – nel suo universo silenzioso e surreale, dove l’ordinario si fa soglia e ogni oggetto diventa esperienza.
