Roma. Eterna, sì, ma anche incredibilmente fragile. Il 18 luglio del 64 dopo Cristo, la città che pretendeva di dominare il mondo scoprì la sua caducità in un baleno di fiamme. Non una catastrofe qualsiasi, ma l’Incendio, dove nella memoria collettiva viene ricordato come una catastrofe urbana con interrogativi che difficilmente separano la storia dal mito.
Tacito, acuto e impietoso cronista, negli Annales ce lo racconta con la lucidità disincantata di chi ha visto e compreso la natura effimera delle costruzioni umane. L'inferno, ci dice, prese il via da lì, dal ventre pulsante del Circo Massimo, proprio dove il Palatino e il Celio si sfiorano. Non fu un fuoco lento ma un'eruzione. Le botteghe, stipate di merci infiammabili, divennero la miccia perfetta, e il vento complice, trasformò una scintilla in una corsa folle.
Roma, con tutta la sua magnificenza, sempre secondo Tacito, non era pronta. Mancavano “case con recinti di protezione”, mancavano “templi circondati da muri”, mancava, in sostanza, una qualsiasi forma di resistenza all'onda incandescente. Il fuoco non seguiva logiche, non si curava di templi o di dimore patrizie. Saliva, scendeva, avvolgeva, annientava. Una velocità inaudita, un flagello che anticipava ogni tentativo di arginarlo, riducendo a cenere millenni di ambizioni e conquiste.
E subito, come sempre accade di fronte all'inspiegabile, nacque il sospetto: “Nessuno poi osava combattere il fuoco... per le ripetute minacce di molti che proibivano di spegnerlo”. C'erano quelli che gettavano fiaccole, urlando di aver ricevuto ordini, forse per saccheggiare, forse, perché davvero gli ordini venivano dall'alto. Ecco l'humus fertile, la materia oscura da cui germoglierà il mito, la leggenda nera: Nerone l'incendiario. Una narrazione potente, devastante, che lo dipinse non solo come responsabile ma, forse peggio, come beneficiario di quella distruzione. Un'accusa che, con cinico opportunismo, servì anche a gettare i cristiani in pasto ai leoni, o meglio, alle fiamme.
Il XIX secolo, con la sua fame di grandezza dei fasti romani e la gran moda degli scavi archeologici, lo riprende, lo interpreta e lo trasforma in arte attraverso un'interpretazione, una meditazione profonda. Karl Theodor von Piloty, artista tedesco del XIX secolo, con un'anima da narratore epico, dipinge la sua Rappresentazione del grande incendio di Roma. La scena è teatrale, quasi operistica. Ogni elemento concorre a creare una tensione drammatica palpabile. E l'illuminazione all’interno dell’opera non è quella naturale, ma artificiale, distorta, delle fiamme che divorano ogni cosa. Non è propriamente una questione di tecnica pittorica, è simbolismo puro: la distruzione che genera la propria luce, un'atmosfera di cupa sublimità, l'ordine classico che implora pietà davanti al disordine più totale.
E Nerone. Piloty lo piazza non al centro geometrico, ma al centro interpretativo. Non una riproduzione fedele, ma un archetipo, il tiranno visionario. Il suo sguardo, enigmatico, ambiguo, un misto di gelida indifferenza cinica e perversa fruizione estetica dello spettacolo della devastazione. È la rappresentazione di un'hybris, la follia distruttiva insita nel potere, un'affermazione metaforica della responsabilità imperiale di fronte al caos urbano. Le fiamme, le lingue di fuoco, diventano agenti della scena, espressione di una violenza primordiale che si scaglia contro l'opera umana. E le rovine si trasformano in frammenti di un'antica grandezza che soccombe, simbolo della transitorietà delle civiltà, della fragilità di ogni costruzione di fronte alla potenza annichilente.
La distruzione come preludio alla rifondazione, un ciclo eterno che ci lega a quella notte di fiamme e di follia. Corsi e ricorsi storici che legano il passato all’amara attualità.
Henryk Siemiradzki, maestro polacco della seconda metà del XIX secolo, dipinge un’opera che argomenta lo stesso oggetto ma differisce nel soggetto: Le fiaccole di Nerone. Un'immersione nell'orrore più raffinato che non argomenta la vastità della catastrofe, ma un 'imperatore in posa grandiosa e la perversa magnificenza dei fasti romani che sfociano nella persecuzione dei cristiani. Siamo nei giardini lussureggianti della Domus Aurea, in una notte che non è ancora notte, ma che presto lo diventerà. Una festa imperiale al suo culmine, una folla avida di spettacolo, e al centro di questa macabra attesa, loro: i cristiani. Cosparsi di pece, innalzati su pali. Non ancora accesi, ma già destinati. Fiaccole umane.
Nerone, avvolto dalla sua corte di adulatori e musici, arriva su una lettiga d'oro, quasi un nume pagano. Schiavi pronti a innescare il fuoco che illuminerà un'orgia depravata. Ma c'è una dialettica qui, una paradossale ironia della storia: quel fuoco, pur nella sua barbarie, avrebbe dissipato le tenebre del paganesimo, diffondendo, attraverso l'atrocità del martirio, la luce della nuova dottrina di Cristo. Fuochi cristiani o Fuochi del cristianesimo: già nel titolo di Siemiradzki si condensa la tensione tra la brutalità del potere e la forza ineludibile della fede.
Il colossale dipinto di Siemiradzki è un teatro della crudeltà: la corte di Nerone immersa in una decadente mollezza. L'imperatore, arbitro di questa macabra liturgia. E intorno a lui, la grandiosa scenografia dei giardini, ricostruita con una meticolosa ricerca storica e archeologica, un trionfo di eclettismo compositivo che cita archi trionfali e reperti di Pompei ed Ercolano. Splendidi askoi, armi gladiatorie, cembali, coppe d'argento. Persino Sfingi e Centauri modellati su opere antiche.
Il successo fu immediato, clamoroso. Siemiradzki, con il suo rigore accademico e una sensibilità quasi romantica per il pathos, costrinse l'osservatore a un confronto diretto con una delle pagine più oscure della storia romana.
Entrambe le opere, pur con linguaggi distinti, non si fermano alla narrazione didascalica di un evento storico ma introducono una meditazione sulla crudeltà umana, sulla precarietà intrinseca delle civiltà. Sono un monito, una vigilanza costante contro ogni deriva disumanizzante. Perché, in fondo, come scrive lo stesso Tacito “… sembrava che Nerone si proponesse di acquistare gloria edificando una nuova città e chiamandola con il suo nome.” La distruzione come preludio alla rifondazione, un ciclo eterno che ci lega a quella notte di fiamme e di follia.
Corsi e ricorsi storici che legano il passato all’amara attualità.
