Disillusione e speranza dei rifugiati nelle immagini di Angelos Tzortzinis

Il fotografo greco, vincitore quest’anno di un World Press Photo, racconta da sempre la vita dei migranti costretti nei campi profughi europei. L’intervista.

Angelos Tzortzinis è un fotografo freelance greco che su rivoluzioni, repressioni e rifugiati lavora da quasi dieci anni, con storie e pubblicazioni che gli hanno valso numerosi premi, tra cui Best Wire Photographer per Time Magazine nel 2015, POYi, Sony award e Visa Pour l’Image.

Mentre affinava il proprio stile e costruiva il suo approccio etico con reportage sulla crisi economica in Grecia e sulla Primavera araba in Egitto e Libia, Tzortzinis ha cominciato a focalizzare tutto il suo interesse su progetti a lungo termine che ruotano attorno a migrazione e accoglienza, con una particolare attenzione alla rappresentazione dei rifugiati, dei loro desideri e delle loro aspettative: in poche ma non semplici parole, sull’aspetto più squisitamente umano delle storie in cui si è caparbiamente imbattuto.

Quest’anno il suo Trapped in Greece, realizzato principalmente sulle isole di Lesbos e Somos, gli è valso un World Press Photo come storia proprio nella categoria Long–Term Projects.

Per Trapped in Greece ti sei servito di un formato panoramico che ricorda Koudelka, ma le tue inquadrature hanno una dinamicità che dà quasi l’impressione di essere di fronte a quelle di un film. E, forse per via della tematica o per il fatto che sei greco, viene in mente Angelopoulos…
L'importante lavoro di Koudelka ha ispirato molti fotografi. Per quanto mi riguarda l'ispirazione è venuta dai registi cinematografici, come hai osservato molto correttamente. Theo Angelopoulos è un regista greco molto importante che mi ha influenzato, ma quelli che mi hanno ispirato a creare questo progetto sono stati il regista polacco Paweł Aleksander Pawlikowski e il direttore della fotografia Lukasz Zal. Ida e Cold War mi hanno insegnato come una storia semplice possa diventare un capolavoro. Anche a causa della dislessia, un disturbo dell'apprendimento di cui soffro, ho sempre bisogno di lavorare entro i limiti che mi pongo. Quindi, l'inquadratura panoramica mi ha dato l'opportunità di lavorare in questi limiti specifici e mi ha aiutato a essere concentrato sul progetto. Chi ha avuto la stessa diagnosi può capire cosa intendo.

Lavori al tema delle migrazioni da molti anni: quali sono gli episodi che ti hanno toccato più profondamente?
Un momento molto difficile per me è stato quando i paesi dei Balcani, la rotta preferita per il nord Europa, hanno chiuso le frontiere, intrappolando più di 90.000 persone in Grecia. In quel periodo mi trovavo a Idomeni, un villaggio vicino al confine tra Grecia e Macedonia del Nord, in un campo allestito con mezzi di fortuna, dove i rifugiati e i migranti vivevano in condizioni tragiche. Queste persone avevano perso la speranza ed erano devastate, perché non potevano continuare il loro viaggio verso un altro paese europeo.
Un altro episodio tragico è stato quando una barca con rifugiati e migranti è affondata mentre tentava di raggiungere l'isola greca di Lesbo dalla Turchia, il 28 ottobre 2015. Ho visto medici e paramedici che cercavano di rianimare i bambini, ho visto genitori che tentavano di elaborare la perdita dei loro figli. Non potevo fare nulla per aiutarli, mi sentivo impotente.

Hai raccontato il dramma dei profughi da diverse prospettive. In cosa è diversa dalle altre l’emergenza umanitaria attualmente in corso in Afghanistan?
Non posso fare differenza tra le crisi dei rifugiati, riguardano tutti gli esseri umani. L'unica cosa che cambia è il legame che ho con il mio paese. Per questo motivo, la maggior parte del mio lavoro finora ha riguardato la Grecia, il luogo dove sono cresciuto e vivo. Le vite delle persone che ho raccontato durante tutti questi anni si stanno evolvendo insieme alla mia vita, maturano e si modellano sempre più nel corso degli anni. Crescere in un quartiere di Atene dove si erano stabiliti dei rifugiati provenienti dall'Iraq, che di solito vivevano in cinque o sei tutti insieme in una piccola stanza in condizioni insalubri, e fare amicizia con loro, mi ha portato a conoscere il loro modo di vivere fin dalla più tenera età. Vorrei anche sottolineare che vivevo e vivo ancora nel cuore del problema ogni giorno, non sono solo un visitatore casuale.

Se c’è una cosa che accomuna Biden e Trump è aver decretato, in discontinuità con Bush e Obama, la fine dell’ipocrisa per cui la missione degli Stati Uniti era quella di esportare la democrazia in tutto il mondo. Quanto era prevedibile quel che sta accadendo? E cosa ti aspetti che succeda, ora?
Come fotografo il mio lavoro è quello di raccontare le questioni sociali in profondità, non di prendere posizione sulle decisioni politiche.

Casi come quello di Danish Siddiqui, ma anche di Tim Hetherington, Andy Rocchelli e altri prima di lui, ci ricordano come mentre per certi versi la fotografia documentaria sta diventando sempre più concettuale—i suoi confini resi sempre meno nitidi grazie alle innovazioni tecnologiche e alle evoluzioni culturali—molti fotografi continuino a perseguire una professione che non può fare a meno di un rapporto diretto tra produzione delle immagini e realtà rappresentata, anche a costo di rimetterci la vita. Di loro, però, spesso si parla solo quando se ne vanno. Cosa spinge, oggi, i fotoreporter?
I grandi fotografi che citi, a cui aggiungerei Chris Hondros, si sono dedicati al loro lavoro per molti anni, era la loro vita e ne conoscevano i rischii, questa è la differenza rispetto a me oggi. Se vuoi essere un fotografo di guerra devi dedicare la tua vita al tuo lavoro. I fotografi vogliono essere in prima linea per poter scoprire la verità da soli. Per me, questo è ciò che spinge i fotoreporter a coprire guerre e conflitti.

Un’ultima domanda: secondo te, la fotografia può fare qualcosa di buono per i migranti?
Non sarebbe onesto dire che la fotografia può cambiare il futuro di queste persone. Sicuramente ci deve essere ottimismo nella vita, ma la gente continua a morire nel tentativo di raggiungere una vita migliore. Non sono ancora in grado di vedere la prospettiva di un futuro migliore, ma certamente lo spero. Perciò continuo a lavorare a questo progetto. Per me è molto importante che la gente venga a sapere cosa sta succedendo e sia informata su questo grave problema sociale; il nostro obiettivo dovrebbe essere, attraverso la fotografia, quello di rappresentare la storia da un punto di vista personale cercando di rivelare ciò che vi si nasconde dietro.

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