La fotografia intensa e sorprendente di Richard Mosse

Al MAST di Bologna è di scena la prima antologica dedicata al fotografo irlandese, una voce unica nel panorama contemporaneo.

Quella di Richard Mosse è una delle riflessioni più audaci, innovative e complesse all’interno del grande calderone che va sotto il nome di fotografia documentaria contemporanea. La sua è infatti da sempre una sfida non solo al rapporto tra realtà e rappresentazione – controintuitivamente congenito a tutto il genere fin dalle sue origini– ma alla fotografia stessa, che fin da quando ha scoperto la sua affinità elettiva con l’arte concettuale vive un continuo e solo apparentemente irrisolvibile conflitto tra contenuto e contenitore, tra etica ed estetica.

Tutte le opere della maturità di questo fotografo classe 1980 sono infatti un tentativo di dimostrare come le due strade, quella che parte dalla necessità di documentare in modo moralmente ineccepibile e quella che muove dalla volontà di creare opere sublimi, possano in realtà coincidere o quantomeno convergere.

E a fare finalmente il punto è il MAST di Bologna, che con Displaced, prima antologica dedicata all’irlandese, rende come al solito accessibile un’opera fortemente sperimentale, coinvolgendo il pubblico in un lavoro intellettuale di vasta portata.

Settantasette, le opere fotografiche di grande formato in mostra, che spaziano dai primi lavori nelle zone di guerra e di confine, come Breach del 2009, alla più recente ricerca nell’Amazzonia brasiliana (Tristes Tropiques, del 2020). In questo cammino attraverso l’arte di Mosse risulta subito evidente che all’evoluzione concettuale si accompagnata quella, continua e ancora in corso, che riguarda l’aspetto tecnologico. In Infra, per esempio, Mosse fa sua una tecnica di ricognizione militare che sfrutta il campo dell’infrarosso (da cui appunto il nome della serie), invisibile a occhio nudo ma capace di rivelare la presenza umana attraverso la registrazione visiva del calore. E se in questo caso a venirgli in aiuto è l’ormai introvabile pellicola Kodak Aerochrome, usata anche per l'immersiva The Enclave, nella serie Heat Maps e nell’installazione audiovisiva Incoming (realizzata con la collaborazione del direttore della fotografia Trevor Tweeten e musicata da Ben Frost) Mosse si affida direttamente a una termocamera, altro strumento di derivazione militare capace di registrare le cosiddette mappe termiche sempre allo scopo di “vedere” più in là.

Richard Mosse, Still from Incoming #27, Mediterranean Sea, 2016, Private Collection SVPL

Dato quindi che Infra e The Enclave raccontano la terribile vicenda della Repubblica Democratica del Congo, attraversata da decenni di sanguinosi conflitti, mentre Heat Maps e Incoming affrontano l’ingarbugliata attualità della migrazione di massa concentrandosi su diversi campi profughi nel mondo (Libano, Turchia, Grecia e Germania tra gli altri), la teorica dicotomia tra quel che vediamo e quel che, a livello più profondo, sentiamo, porta in modo sottile ma determinato a un’altra e più importante rivelazione: la bellezza delle opere risiede infatti proprio nel loro stato di tensione, nella loro condizione violentemente paranoica, dove gli strumenti di localizzazione e, in definitiva, di controllo sono proprio quelli che rendono possibile lo “stile” che tanto ci affascina. Così che alla vertigine provata nel rendersi conto del contrasto tra la rigogliosità della natura e la drammaticità degli eventi che questa nasconde, si somma la disturbante sensazione di poter avere il privilegio di questa esperienza proprio per mezzo degli stessi strumenti che, in mani diverse, perseguono quegli scopi di tracciamento e annientamento che non possiamo che condannare.

Richard Mosse, Dionaea muscipula with Mantodea, Ecuadorean cloud forest, 2019, dalla serie Ultra, Courtesy of the artist and carlier | gebauer, Berlin/Madrid

Si potrebbe quindi essere portati a pensare che l’ultima parte del percorso espositivo corrisponda alla necessità da parte di Mosse di allontanarsi, non solo figuratamente, dai suoi principali temi, di una fuga verso il paesaggio incontaminato, verso la forza rigeneratrice di una natura saggia e resiliente. Ma al contrario, anche i suoi lavori più recenti, come Ultra e soprattutto Tristes Tropiques, contribuiscono in maniera determinante a tracciare un arco di ricerca netto e senza compromessi. Nella prima serie, realizzata tra il 2028 e il 2020, Mosse utilizza infatti l’espediente della fluorescenza ultravioletta perché nessun aspetto della natura, compresi i più violenti, sia tralasciato; mentre nella seconda, dove a dettare la linea d’azione è la visione satellitare, prende a campione il Pantanal brasiliano, teatro di incendi ormai tristemente famosi, per registrare anche i cambiamenti climatici più impercettibili.

Con l’aiuto del video esplicativo Quick, infine, diventa una volta per tutte chiaro che per Mosse la realtà, per quanto violenta, non può essere sempre mostrata con le semplici armi della documentazione fotografica. Non è insomma necessariamente qualcosa di sensibile, e dunque non è affatto detto che, per raccontarne l’essenza e chiarirne il significato, chi lavora oggi con le immagini sia tenuto a essere testimone di una notizia: dato che, per dirla col solito Wittgenstein, il mondo è tutto ciò che accade, sta alla sensibilità dell’artista trovare il modo e perfino il momento giusto per dimostrarne la complessità.

Titolo:
Displaced
Date della mostra:
Dal 7 maggio al 19 settembre 2021
A cura di:
Urs Stahel
Sede:
Fondazione MAST
Indirizzo:
Via Speranza 42, Bologna

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