Non è un mistero che siano sempre più numerosi i creativi che si affidano all'intelligenza artificiale per produrre le proprie opere, utilizzando tecnologie come i modelli text-to-image e i sistemi generativi che creano lavori “vivi”. Tuttavia, alcuni artisti si sono spinti oltre, coinvolgendo l’AI non come un mero strumento passivo, ma come vero e proprio soggetto attivo del processo creativo: ed ecco che nascono i primi artisti “robotici”, animati dall’intelligenza artificiale. Nonostante sembri fantascienza, la loro storia ha origine ormai diverse decine di anni fa.

Precursore di questa rivoluzione è Aaron, un software-alter ego sviluppato da Harold Cohen nei laboratori della Stanford University, che vede la luce nel 1973. Capace di utilizzare l’intelligenza artificiale per generare immagini, Aaron viene “addestrato” da Cohen attingendo da due riferimenti estetici: da un lato, il processo creativo dei bambini, che iniziano spesso tracciando linee per formare figure; dall’altro, i disegni preistorici osservati nella Chalfant Valley, in California. Prendendo la forma di una sorta di “braccio robotico”, l’artista (non umano) non si limita a seguire uno schema imposto, ma viene istruito dall’artista (umano), che prima gli “insegna” le regole compositive, poi la comprensione dei paradigmi artistici e invine l’applicazione di tecniche di disegno. Cohen “allenò” Aaron valutando costantemente i risultati prodotti per decenni: negli anni Ottanta, il software fu finalmente in grado di passare da una "fase astratta" a una "fase figurativa", in cui cominciò autonomamente a rappresentare figure umane, spesso accompagnate da elementi floreali.

È doverosa una precisazione: a differenza dei moderni sistemi text-to-image, che assemblano immagini preesistenti da ampi dataset, Aaron compone opere originali sulla base di istruzioni per la composizione estetica fornitegli dal suo creatore: ciò che lo rende unico, in conclusione, è la sua capacità di emulare il processo decisionale umano nella creazione artistica.
Alcuni artisti si sono spinti oltre, coinvolgendo l’AI non come un mero strumento passivo, ma come vero e proprio soggetto attivo del processo creativo.
Più vicino ai giorni nostri, degno erede di Aaron è Botto, un "artista autonomo decentralizzato gestito da una comunità” – come viene definito dai creatori – che ha già venduto opere per un valore di circa un milione di euro. Ideato nel 2021 dall’artista tedesco Mario Klingemann insieme all’imprenditore Simon Hudson e al programmatore Ziv Epstein, Botto utilizza un generatore di immagini AI simile a Dall-E o Midjourney. Quello che lo rende destinato al successo tra i collezionisti, però, è il "modello di gusto": l’artista AI è in grado di adattarsi continuamente al gusto dei collezionisti, modificando l’estetica delle opere in base ai feedback della sua comunità (che conta oltre cinquemila partecipanti). Le vendite, perciò, sono matematicamente assicurate.

Ma non finisce qui, perché sembra che Botto si stia spingendo verso una nuova frontiera: sta ora evolvendo verso una propria personalità originale. I membri della rete decentrata che lo compone, infatti, hanno deciso di integrare un modello linguistico open source avanzato, sviluppato da Mistral, e una knowledge base che consente a Botto di discutere delle sue creazioni. Cosa significa? Che l’artista sarà in grado di accrescere la propria coscienza, sviluppare una personalità e degli interessi. A sua volta, questa personalità, in futuro, potrebbe influenzare direttamente l’arte prodotta da Botto, che diventerebbe davvero “sua”, ovvero prodotta sulla base di un gusto “proprio”.
In definitiva, il ruolo dell’AI nell’arte resta un affascinante paradosso: da una parte, ci invita a celebrare l’innovazione e l’espansione della creatività; dall’altra, ci costringe a confrontarci con i limiti della nostra definizione di quale sia il significato della creazione stessa.

L’avvento degli artisti AI come Aaron e Botto rappresenta una svolta epocale, che apre nuove frontiere nell’espressione creativa e ridefinendo il concetto stesso di arte. Tuttavia, questo cambiamento solleva interrogativi complessi e ancora irrisolti. Da un lato, l’intelligenza artificiale offre possibilità straordinarie: crea nuove estetiche, democratizza il processo artistico e ci costringe a ripensare le tradizionali gerarchie tra artista e strumento. Dall’altro lato, ci interroga su questioni fondamentali: cosa accade quando il creatore è una macchina? E quanto dell’intento umano resta nell’opera, una volta mediata dall’algoritmo?
In definitiva, il ruolo dell’AI nell’arte resta un affascinante paradosso: da una parte, ci invita a celebrare l’innovazione e l’espansione della creatività; dall’altra, ci costringe a confrontarci con i limiti della nostra definizione di quale sia il significato della creazione stessa. Forse non si tratta di stabilire se tutto questo sia un bene o un male, ma di imparare a convivere con un futuro in cui queste domande resteranno aperte.
Immagine di apertura: Botto, Whispers of Nature's Tapestry, 2024