La demolizione del Teatro Nazionale di Tirana

Due artisti – Adrian Paci e Stefano Romano – ci raccontano il retroscena e l’impatto emotivo per la perdita di un edificio chiave e amato nel panorama culturale albanese. 

All’alba di domenica 17 maggio, nel pieno centro della capitale albanese Tirana, viene abbattuto l’edificio del Teatro Nazionale, risalente al 1939 e costruito dall’ingegnere e architetto italiano Giulio Bertè. L’episodio, inaspettato nei tempi e nelle modalità, segue un lungo periodo di tentate negoziazioni da parte di un ampio gruppo di cittadini favorevole a una sua conservazione, e suscita un forte impatto emotivo. Tra le figure critiche ci sono due artisti: Stefano Romano, italiano che da anni vive e lavora a Tirana da diciassette anni e dalle vicende albanesi trae ispirazione; e Adrian Paci, una delle figure più influenti del panorama artistico albanese. Paci vive in Italia; ma il suo attaccamento nei confronti dell’Albania è rimasto immutato; anzi a partire dal 2015, con la creazione di Art House – una casa che funge anche da luogo di confronto, aggregazione e formazione artistica – il suo grande e costante impegno a favore dell’ambiente culturale nazionale, della sua apertura, affermazione e internazionalizzazione, si è fatto esplicito.
A loro ci rivolgiamo per meglio comprendere la situazione.

Stefano Romano, con lo sguardo lucido di chi viene da fuori, parla di un luogo in fase di continuo cambiamento: della centrale Piazza Skenderbeg trasformata già tre volte durante gli anni della sua permanenza in città. Della situazione di fermento della capitale a partire dal 17 maggio dice che “l’abbattimento del Teatro Nazionale di Tirana ha avuto un impatto emotivo molto forte sulla popolazione, le immagini delle ruspe che prima dell’alba demoliscono l’edificio, partendo dalla sua facciata, hanno provocato forti reazioni da subito. Le manifestazioni si sono andate moltiplicando, a livello di piazza e in forma di raccolte firme e campagne online.”

Il Teatro Nazionale di Tirana era rientrato tra i sette edifici più a rischio di sparire in Europa, e nell’ultimo periodo era stato posto sotto la tutela di fondazioni europee come Europa Nostra, nella speranza di scongiurare la demolizione. “La lotta per salvaguardarlo è iniziata quasi due anni fa – spiega Romano – quando, tra l’altro, si è strutturato il gruppo Alleanza per la protezione del teatro che ha tentato di spostare la questione a livello internazionale. Malgrado gli appoggi ufficiali ricevuti, però, non c’è stato, da parte del governo, alcun passo indietro ufficiale sulla questione; anzi, nelle interviste rilasciate il Primo Ministro Edi Rama e il sindaco di Tirana Erion Veliaj hanno sempre ribadito la volontà di abbattere l’edificio.”

L’abbattimento del Teatro Nazionale di Tirana ha avuto un impatto emotivo molto forte sulla popolazione, le immagini delle ruspe che prima dell’alba demoliscono l’edificio, partendo dalla sua facciata, hanno provocato forti reazioni da subito

Una delle opere più recenti di Stefano Romano, il video Zanafilla, racconta proprio la poesia di questo teatro, e ora, in occasione di questo epilogo, rappresenta un addio commovente. “Sono sempre stato interessato al legame tra il corpo e gli edifici che definiscono lo spazio vitale, lo spazio di movimento. Zanafilla – il termine albanese significa “origine” – nasce insieme alle proteste per l’abbattimento del teatro. L’edificio diventa un “personaggio” e il suo corpo vecchio e martoriato viene posto in parallelo con il corpo giovane di una ragazza che canta una ninna nanna per il teatro, in lingua albanese. Il testo nasce da una mia richiesta a intellettuali, filosofi, artisti locali, di scrivere “una rima per la ninna nanna del teatro” con la metodologia del Cadavre Exquis. Tra l’altro di solito sono gli anziani a cantare la ninna nanna per i giovani; qui la modalità è ribaltata. Purtroppo, l’idea si è rivelata profetica.”

L’abbattimento è avvenuto senza neanche attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale, e per di più in piena emergenza pandemica. “Il governo e il comune prevedevano la demolizione del Teatro con la costruzione di quello nuovo, assieme a una serie di grattacieli che dovevano sostituire le costruzioni originali lungo la strada pedonale che lo costeggia, quindi su territorio pubblico e privato. Il governo pensava di poter realizzare lo sviluppo di quest’area attraverso un partenariato pubblico-privato e una nota società edilizia albanese si era offerta di portare avanti il progetto, incaricando lo studio danese BIG (Bjarke Ingels Group). Fallita questa formula si è proceduti con un decreto legge per trasferire la proprietà del terreno al Comune di Tirana, con la clausola di costruirvi un teatro “di architettura contemporanea” con fondi pubblici. Tutto questo si è svolto nell’arco di quella settimana che ha portato all’abbattimento. Modalità e tempi fanno pensare che ci fosse una scadenza da rispettare, anche se il Primo Ministro stesso e il sindaco di Tirana hanno dichiarato che al momento non vi sono fondi per costruire il nuovo teatro, e che il progetto sarà comunque quello dello studio BIG.”

D’altra parte, la demolizione e l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine non sono espressione di un mutamento di politica da parte del governo. Stefano avanza un’analisi di carattere socio-politico: “Tirana è il centro degli interessi economici dell’intera Albania, e l’edilizia è uno degli investimenti più importanti, e la maggiore fonte di entrate economiche per le casse dei comuni albanesi. L’adesione totale all’approccio capitalistico occidentale ha fatto dell’Albania un territorio di conquista edilizia selvaggia. Io credo che la demolizione del Teatro segni non un cambiamento della politica di Rama, ma una continuità della sua visione. Rama ha vissuto un’ascesa straordinaria da inizio anni 2000 a oggi, e la sua immagine di artista è stata il suo veicolo di promozione. Ha cambiato l’immagine di Tirana, e poi dell’Albania agli occhi della comunità internazionale, e lo ha fatto usando l’arte. La sua è una figura contraddittoria; la comunità culturale aveva riposto in lui grandi aspettative; la sua politica interna, portata avanti con un appoggio internazionale sapientemente costruito, le ha deluse.”

Il rapporto di Adrian Paci con questa vicenda è diverso. Da sempre il suo confronto con Edi Rama è basato sulla vicinanza e sull’amicizia, e il suo atteggiamento di sensibile vigilanza su tutto ciò che accade in Albania si è sempre esplicato nei limiti del grande rispetto che può legare un allievo al maestro. Ma lo strappo rappresentato dalla distruzione del Teatro Nazionale lo ha spinto a esporsi con una critica profonda, che investe non solo la singola vicenda, ma il modo di concepire il tessuto urbano e lo spazio pubblico, e il ruolo che, nella definizione di un territorio, riveste la memoria.

Tirana è il centro degli interessi economici dell’intera Albania, e l’edilizia è uno degli investimenti più importanti, e la maggiore fonte di entrate economiche per le casse dei comuni albanesi. L’adesione totale all’approccio capitalistico occidentale ha fatto dell’Albania un territorio di conquista edilizia selvaggia

È all’interno di questa più ampia cornice che Paci tende a inquadrare la situazione: “Due questioni si intersecano nella vicenda del Teatro Nazionale di Tirana, distrutto nel buio dell’alba, alle 4.30 del 17 maggio 2020: la prima riguarda il rapporto con la memoria e le tracce che essa lascia nel tessuto urbano. L’intero nucleo urbanistico di cui il teatro fa parte risale al periodo tra gli anni Venti e Quaranta e ancora oggi costituisce parte integrante dell’identità architettonica di Tirana. Questa impostazione urbanistica, così precisa, era stata violata già in epoca comunista e ha continuamente subito interventi di trasformazione anche successivamente. Quello che è successo con il Teatro non è un caso isolato; è solo il più clamoroso. Dopo gli anni ’90, tanti edifici, vecchie case, ville, architetture eleganti, forse modeste ma dignitose, sono stati distrutti. E non solo le singole abitazioni, ma intere aree hanno subito cambiamenti violenti, vedendo le stradine con case di due piani e giardino interno trasformarsi in blocchi di cemento armato. È stato il trionfo dei developer, della speculazione edilizia”.

“Il teatro era riuscito a salvaguardarsi grazie al valore pubblico che manteneva, soprattutto in termini di memoria. Anche se naturalmente la sua presenza non era in grado di esaurire la necessità di un vero Teatro Nazionale. La sua distruzione rappresenta un’azione di forte impatto simbolico che mette in evidenza la mancanza di rispetto per questi valori dei quali la società albanese si sente privata da tanti anni. Da qui le legittime reazioni che ha suscitato”.

A queste considerazioni si aggiunge una riflessione di ampia portata che investe I temi dello Stato, del governo, della collettività. “La seconda questione” prosegue Paci, “riguarda il rapporto tra il potere e l’estetica; in particolare un’idea di bellezza che prende corpo in una serie di opere grandiose, ma destinate ad essere calate sulla città per volontà dell’uomo forte. In tal senso, il ricorso agli architetti di fama è un espediente frequente, mediaticamente efficace. Il potere prende così le sembianze del pittore che si pone davanti a una tela bianca, sentendosi libero di proiettarvi la propria visione. Ma, appunto, il territorio non è una tela bianca, bensì una trama di storie, memorie, necessità, desideri. Manca, in questa logica, una considerazione del tessuto sociale del paese, del suo vissuto, delle sue contraddizioni, del suo portato di memorie e di valori. Mancano gli atteggiamenti di attenzione e ascolto, di sensibilità e di cura. Resta la politica come un insieme di segni forti, destinati a stordire in nome dello spettacolo che offre: gli architetti diventano esecutori all’interno del grande disegno del potente, loro committente. Il cittadino diventa spettatore che assiste passivamente allo spettacolo ed è costretto a vivere sotto la dittatura di una ’bellezza’ imposta dall’alto. La grandezza delle opere rimpicciolisce così sempre di più il cittadino, lo schiaccia e lo fa sentire inadeguato. È vero che dopo anni di un faticoso, caotico passaggio dalla dittatura alla democrazia abbiamo bisogno di segni visibili, ma la strada della distruzione della memoria è decisamente sbagliata”.

“Io sono convinto che, invece della bellezza delle opere grandiose, abbiamo bisogno della bellezza delle relazioni, e una politica che si prende cura della bellezza è quella che cerca di creare armonia là dove c’è diseguaglianza, cerca di portare una parola vera là dove c’è il rumore della menzogna, cerca di governare le contraddizioni senza soffocare le tensioni che mantengono vivi gli spazi della libertà e del dissenso democratico. Questo compito non lo può mai svolgere un uomo solo, e non si compie in un giorno perché richiede la fatica della coltivazione che non finisce con l’isolata azione del piantumare. Che questo non sia un compito facile lo sappiamo tutti, ma facendo diversamente rischiamo che in nome della bellezza delle opere, ci si trovi a vivere in una società imbruttita.”

Rappresentanza, cittadinanza, democrazia sono dunque le grandi questioni aperte – non solo albanesi – che il Teatro Nazionale di Tirana ha fatto emergere con la sua morte.

Immagine di apertura: Teatro Nazionale a Tirana, Albania

Ultimi articoli di Arte

Altri articoli di Domus

Leggi tutto
China Germany India Mexico, Central America and Caribbean Sri Lanka Korea icon-camera close icon-comments icon-down-sm icon-download icon-facebook icon-heart icon-heart icon-next-sm icon-next icon-pinterest icon-play icon-plus icon-prev-sm icon-prev Search icon-twitter icon-views icon-instagram