dOCUMENTA (13)

Densa, carica, ricca e senza confini, la più importante mostra d'arte contemporanea del mondo, diretta quest'anno da Carolyn Christov-Bakargiev, è tutta basata su affinità e passioni in un continuo oscillare tra passato e presente.

L'ingresso del Fridericianum è spoglio. Vi spira un vento forte. È il vento dello spirito, dell'emozione, del cambiamento, è la necessità di rinnovamento; ma è anche il vento della storia e porta con sé un senso di tragedia. È una metafora potente. Siamo a Kassel, nell'Assia settentrionale in un'area che fu pesantemente bombardata dagli Alleati in quanto tra i maggiori centri di produzione di armi durante il Nazismo. Dal trauma e dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale, in una città che cercava di riprendersi e che faceva i conti con il passato, nasceva, nel 1955, Documenta, la più importante mostra d'arte contemporanea del mondo. Della presa in carico del passato e della possibilità, intrinseca nella genesi stessa della rassegna, di vedere nell'arte un'opportunità di ripensamento e di rinascita, si sostanzia Documenta 13, recentemente inauguratasi a cura di Carolyn Christov-Bakargiev (e aperta fino al 13 settembre). Per Christov-Bakargiev l'arte è necessità, è risposta a un'urgenza; è capace di enucleare forza critica, di catalizzare energia e di rigenerare la cultura e il pensiero politico.

Questo orientamento s'inserisce nel solco di una continuità: basti pensare che nel 1972 Joseph Beuys attivava qui, nell'ambito di Documenta 5 diretta da Szeemann, un Ufficio Informazioni legato al suo Organisation für Direkte Demokratie, che militava per l'autodeterminazione dei popoli e per tutti i 100 giorni della mostra dibatteva le proprie convinzioni politiche e artistiche con i visitatori. Molti anni dopo, nel 2002, Okwui Enwezor realizzava Documenta 11, un momento di ricapitolazione dello "stato dell'arte" e di rilancio per quanto riguardava la sua capacità di esprimere i rapporti tra l'occidente e il resto del mondo.
In apertura: Ida Applebroog, <i>I SEE BY YOUR
FINGERNAILS THAT
YOU ARE MY
BROTHER</i>, 1969–2011. Photo Roman März. Qui sopra: Rossella Biscotti, <i>Il Processo (The Trial)</i>, 2010–12. Photo Anders Sune Berg
In apertura: Ida Applebroog, I SEE BY YOUR FINGERNAILS THAT YOU ARE MY BROTHER, 1969–2011. Photo Roman März. Qui sopra: Rossella Biscotti, Il Processo (The Trial), 2010–12. Photo Anders Sune Berg
Ma per Christov-Bakargiev, più che per Enwezor, in gioco, nell'arte, c'è, un rapporto sempre unico e viscerale con il mondo; un rapporto che nasce dallo sguardo necessariamente soggettivo, seppur carico di un portato collettivo, dell'artista; uno sguardo capace quindi di oltrepassare l'atteggiamento raziocinante. Per questo nella Documenta 13 non esistono tendenze né movimenti, ma una realtà molteplice e cangiante fatta di infinite traiettorie e prospettive, di carotaggi in profondità. Ad accomunare le opere in mostra, è la forza della forma, che si abbina con l'attenzione per l'impaginazione e per l'allestimento. Un'attenzione quanto mai evidente anche nel confronto con le altre grandi mostre di questo momento, a partire dalla Biennale di Berlino, in cui la forma si disintegra fino quasi a scomparire. Non si tratta di formalismo. Tutto, in questa Documenta, è contenuto: contenuto che si presenta attraverso il linguaggio e la materia capaci, insieme, di veicolare il significato e spesso la critica, la denuncia.
Ryan Gander, <i>I Need Some Meaning I
Can Memorise (The
Invisible Pull)</i>, 2012,
Fridericianum. Photo Nils Klinger
Ryan Gander, I Need Some Meaning I Can Memorise (The Invisible Pull), 2012, Fridericianum. Photo Nils Klinger
La pregnanza dalla mostra passa proprio attraverso la capacità di espressione degli artisti individuati. Una capacità che possiamo rintracciare in ogni epoca, a ogni latitudine, e che ci rende contemporanee le più diverse forme di espressione; per questo Christov-Bakargiev presenta opere del presente più cogente e del passato più remoto. Viene da dire che la mostra stessa, facendo riferimento ai corsi e ricorsi della storia, sia storica e contemporanea insieme. Per rendercene conto, basta oltrepassare la prima sala del Fridericianum: eccoci catapultati dall'assoluta immaterialità del vento di Ryan Gander al display densissimo dell'emiciclo, rinominato dalla curatrice the Brain e proliferante di opere dei generi più diversi. Qui ci troviamo a spaziare nel tempo, tra vasi di vetro e di ceramica, nature morte di Giorgio Morandi e l'Hypotalamic Brainstorming disegnato da Gianfranco Baruchello, tra le magnifiche statuine centroasiatiche delle Principesse Battriane, risalenti al 2500-1500 a.C. e l'opera Essere fiume di Giuseppe Penone, con due sassi che possono sembrare identici, mentre sono, il primo, un sasso di fiume e il secondo, la sua copia scolpita in marmo bianco di Carrara. Qui troviamo anche le fotografie di Lee Miller mentre, nel 1945, fa il bagno nella vasca di Hitler dopo aver trascorso il pomeriggio a Dachau; poche ore dopo, nel suo bunker, Hitler, si suicidava; c'è troppo in queste foto, per essere detto. E c'è anche il lavoro fotografico di Ines Schaber sul campo di concentramento di Breitenau, a pochi chilometri da Kassel, dove la Gestapo richiudeva i prigionieri politici.
Per Christov-Bakargiev l'arte è necessità, è risposta a un'urgenza; è capace di enucleare forza critica, di catalizzare energia e di rigenerare la cultura e il pensiero politico.
Attia Kader, <i>
The Repair from
Occident to Extra-
Occidental Cultures</i>,
2012. Photo Roman
März
Attia Kader, The Repair from Occident to Extra- Occidental Cultures, 2012. Photo Roman März
Al piano superiore, troviamo i magnifici arazzi figurativi di Hannah Ryggen, tessitrice autodidatta che negli anni Trenta esprime, nei soggetti rappresentati, la protesta nei confronti del Fascismo che avanza. Ci si imbatte poi in una sala i cui muri sono coperti di centinaia di piccoli, meticolosissimi disegni di mele realizzati tra il 1912 e gli anni Sessanta da Korbinian Aigner, botanico e Pastore bavarese mandato a Dachau per via delle sue prediche antinaziste. Aigner lavorò come giardiniere a Dachau e Sachsenhausen, e qui coltivò una nuova varietà di mele ogni anno. Continuò in seguito a studiare le mele. L'ossessiva attenzione che emerge dai disegni dice come, in situazioni estreme, la prassi più comune possa acquisire il senso di un esercizio di resistenza e la passione possa rappresentare una fonte di energia e un'àncora di salvezza. Ma sono una strategia di resistenza anche i diari personali, le cui pagine troviamo esposte e riprodotte in migliaia di copie, affinché le possiamo portare a casa, che l'anziana artista Ida Appelborg ha riesumato dal passato: pagine e pagine piene di appunti personali, di informazioni e di piccoli disegni disturbanti nei quali si esprimono le nevrosi e le complessità di una vita vissuta al femminile. Straordinaria l'installazione Repair From Occident to Extra-Occidental Cultures di Kader Attia, un archivio in cui convergono immagini e oggetti che parlano di arte, di colonialismo, di scarificazione, del corpo umano martoriato dalla guerra e trasformato in maschera, dei reperti bellici trasformati in ornamento, e di nuovo in arte, e così via in un cortocircuito destabilizzante.
Massimo Bartolini,
<i>Untitled (Wave)</i>, 1997–2012. Photo Nils Klinger
Massimo Bartolini, Untitled (Wave), 1997–2012. Photo Nils Klinger
A partire dal Fridericianum la mostra si dipana nelle altre sedi normalmente utilizzate: l'Ottoneum, la Documenta-Halle, la Neue Galerie – dove vanno viste, tra l'altro, le opere di Sanja Ivekovic, Rossella Biscotti, Wael Shawky, Susan Hiller, Roman Ondàk, l'Orangerie. Il grande parco prospiciente ospita numerose installazioni alcune delle quali – per esempio quelle di Massimo Bartolini, Song Dong, Anna Maria Maiolino e Pierre Huyghe – meritano assolutamente la visita. La mostra si estende in numerosissimi punti della città: dalla stazione, dove si vedono, tra l'altro, opere straordinarie di Javier Tellez e di Janet Cardiff e George Bures Miller e Susan Philipsz, che qui ha realizzato una delle sue opere più intense, alle sedi degli interventi e delle performance; tra le altre, il confronto, ideato e predisposto da Annibal Lopez tra gli spettatori e un sicario guatemalteco, è stato un incredibile momento svelamento rispetto all'immaginario collettivo del pubblico.
Giuseppe Penone,
Lawrence Weiner, <i>
Essere fiume 6</i>, 1998,
<i>THE MIDDLE OF THE
MIDDLE OF THE
MIDDLE OF</i>, 2012. Photo
Roman März
Giuseppe Penone, Lawrence Weiner, Essere fiume 6, 1998, THE MIDDLE OF THE MIDDLE OF THE MIDDLE OF, 2012. Photo Roman März
Occorrerebbero giorni per visitare questa Documenta e ancora non sarebbero sufficienti. Perché la mostra si svolge anche altrove, in diverse parti del mondo; tra l'altro in Afghanistan, a Kabul e poi al Cairo e in un angolo ritirato del Canada, e in altri luoghi ancora. Se Documenta è nata dalla violenza della storia e dalla necessità di un ripensamento, se non di un impossibile emendamento, oggi è altrove che queste istanze si fanno cogenti e che conseguentemente l'arte dovrebbe operare. Così l'Afghanistan, di cui urge la smilitarizzazione, è sempre presente, per esempio nelle bellissime opere realizzate nel paese da Michael Rakowitz e da Goshka Macuga. E, non a caso, Christov-Bakargiev ha posto il mappamondo di Alighiero Boetti – ricamato da donne afghane nel 1971 – in posizione centrale al Fridericianum. I corsi e i ricorsi della storia, il continuo oscillare tra passato e presente, tra specifico e universale, e la distruzione, le paure, le prospettive, ciò che resta di naturale sul pianeta, le risorse che vanno preservate e le forze generative della natura, e quelle dell'arte; tutto questo si trova in questa mostra, tutta basata su affinità e passioni; densa, carica, ricca e senza confini. "L'arte fa, perché è storia e mondo" scriveva Fabio Mauri, anch'egli presente in mostra.
Artisti vari, <i>The Brain</i>. Photo
Roman März
Artisti vari, The Brain. Photo Roman März
Song Dong,
<i>Doing Nothing Garden</i>,
2010–12. Photo
Nils Klinger
Song Dong, Doing Nothing Garden, 2010–12. Photo Nils Klinger
Sanja Ivekovi,
<i>The Disobedient (The
Revolutionaries)</i>, 2012. Photo Anders Sune Berg
Sanja Ivekovi, The Disobedient (The Revolutionaries), 2012. Photo Anders Sune Berg
Javier Tellez, <i>Artaud's Cave</i>, 2012. Photo Henrik Stromberg
Javier Tellez, Artaud's Cave, 2012. Photo Henrik Stromberg

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