Roman Ondák, Eclipse

La mostra rappresenta un'articolata riflessione retrospettiva sulle diverse fasi della pratica artistica di Ondák dalle prime opere degli anni '90 a oggi.

L'opera di Ondák consiste in un'analisi delle molteplici sfaccettature della vita quotidiana, nei suoi dettagli meno appariscenti e nei suoi aspetti più ordinari, di cui l'artista si appropria per ricontestualizzarli nel contesto artistico e farli emergere dallo sfondo indistinto a cui sembrerebbero destinati. L'artista cattura momenti impercettibili, invisibili, veri e propri "non-eventi" (che diventano improvvisamente visibili ed esperibili grazie a piccole modifiche o tenui scarti del punto di vista) e potenzia il lato più innocente, banale o familiare delle cose immettendovi una carica immaginifica che lavora su più livelli – estetico, sociale e politico, visivo, concettuale – e che trasforma il nostro scenario di ogni giorno in una continua fonte di meraviglia.

Attraverso le sue sculture, installazioni, video e perfomance, l'artista mette in atto continui meccanismi di disorientamento del pubblico: l'artificio (o inganno) viene a volte assurdamente pronunciato, o evidenziato, in modo da attirare l'attenzione verso qualcosa o qualcuno che altrimenti rimarrebbe sconosciuto. Ad esempio, in The Stray Man, 2006, performance presentata anche a Trento (alla Galleria Civica, nel 2006), un comportamento ordinario, come quello di un uomo senza alcuna caratteristica di eccentricità che guarda, attraverso una finestra, l'interno di uno spazio espositivo presso cui l'artista è stato invitato ad esporre, si trasforma in un gesto ripetuto, che accresce, in una reiterazione scandita a intervalli regolari di tempo, la curiosità degli astanti.
Il meccanismo di disorientamento avviene anche attraverso l'accentuazione di un dettaglio minuto facente parte di un oggetto – per cui l'oggetto stesso non appare "come ci si aspetta" (come una porta che conduce verso molte direzioni) – o, ancora, la sua decontestualizzazione, lo spostamento di alcuni elementi dal luogo di originaria appartenenza a un luogo differente, e il conseguente trasferimento di significato, come nel caso di lampadari che invece di stare a soffitto sono montati a parete o di pavimenti che divengono quadri o, come nel caso di Resting Corner (1999), opera in mostra, in cui due elementi di mobilio, un divano e una scaffalatura, sono spostati dall'ufficio dello staff del museo per essere allestiti come opera d'arte nello spazio espositivo.

L'esempio forse più eclatante è rappresentato da Loop, titolo della grande installazione presentata dall'artista in occasione della 53° Biennale di Venezia, in cui ha trasformato il Padiglione veneziano in modo tale che il pubblico non si accorgesse della differenza tra l'esterno e l'interno, fra i giardini che circondano l'edificio e la sala interna dell'edificio stesso. Collaborando con alcuni giardinieri che lavoravano per i Giardini della Biennale, Ondák ha realizzato un giardino all'interno del padiglione, ha trasferito la realtà naturale all'interno di uno spazio espositivo artificiale, intervenendo sulla percezione del pubblico che non si accorgeva inizialmente di aver varcato una soglia, fisica e simbolica, che separa lo spazio/tempo aperto della natura e quello chiuso dell'arte. Solo in un secondo momento il suo sguardo prendeva consapevolezza della natura architettonica del Padiglione e dell'intima contiguità (loop) fra elementi opposti (interno/esterno; natura/cultura).
Alla Fondazione Galleria Civica, l'artista presenta un corpo di lavori inediti che formano poetici contrappunti fra l'architettura reale dello spazio espositivo e un'architettura immaginaria, evocata dall'artista attraverso opere che sono in grado di mimetizzarsi negli spazi espositivi, di percorrere l'architettura reale del museo come soglie che introducono a una dimensione più potenziale e ipotetica, fantastica e onirica.

Al piano terra della Fondazione Ondák presenta un insieme di opere realizzate prevalentemente negli anni '90, e mai esposte fino ad'ora in pubblico. Il progetto culmina negli spazi sotterranei della Fondazione, in cui è presentato Eclipse (2011), un nuovo progetto site-specific espressamente pensato per lo spazio architettonico della Fondazione e che, letteralmente, la capovolge, la mette sotto-sopra. L'opera, che conclude il percorso espositivo, di cui rappresenta una spettacolare condensazione estetica, consiste nel ribaltamento del soffitto del piano interrato della Fondazione, realizzato in parte con elementi di recupero del soffitto stesso e in parte con legno di larice, appartenente al patrimonio forestale trentino e generalmente utilizzato proprio per la costruzione dei tetti delle case. Come nella maggior parte delle opere dell'artista, anche in questo caso l'effetto, procedendo per contrasti e analogie, risulta ambiguo. Eclipse non è solo il capovolgimento del soffitto dello spazio espositivo, che invece di ergersi verso il cielo sprofonda verso la terra, ma anche un normale tetto, con camini e tegole: un'aporia architettonica tanto più ambigua quanto più realistica, in cui ciò che era alto si muta in basso, ciò che era esterno diventa interno, un luogo chiuso e concluso, un lascito archeologico all'interno di uno spazio museale contemporaneo. Un apice (al contrario) con cui culmina, in un tono giocoso che quasi trascolora nella favola, la ricerca di un varco fantastico all'interno dell'architettura reale del museo.

Fino all'8 maggio 2011
Roman Ondák, Eclipse
Fondazione Galleria Civica, Trento

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