Zucchi reinterpreta una serie di immagini del XIX e XX secolo – se pensa all'800 lo vive come un secolo già contemporaneo, quasi post-moderno – e le trasforma in disegni attuali grazie a uno strumento semplice, ma efficace, una penna sfera rigorosamente blu che si muove nervosa su carta pergamena. L'autore crea una serie di quaranta disegni, anche in grande formato, dove vengono rievocati tre temi esotici come la delicata grazia delle Geishe giapponesi, il mistero delle Piramidi d'Egitto e l'esuberante sfarzo dei Maharaja indiani, creando una sorta di attualizzazione del visual d'antan.
Andrea Zucchi, classe 1964, pittore milanese di lontana ascendenza metafisica, dopo il recente ciclo dei Colonizzatori in cui affiancava figure arcaiche a architetture contemporanee mettendo in scena i contrasti della globalizzazione, indaga oggi il tema della copia da una prospettiva insolita e controversa: anacronistica per la scelta dei temi ma assolutamente attuale per la scelta del medium e l'estemporaneità della processo di produzione – leggi la realizzazione dell'opera.

Maria Cristina Didero: Perché hai scelto di usare la biro? La biro è nata per scrivere, non per disegnare.
Andrea Zucchi: È vero ma d'altra parte è anche uno strumento molto contemporaneo; non va intinta in un calamaio, non ha bisogno di ricariche frequenti come la stilo, l'inchiostro si secca immediatamente. Disegnavo molto a penna a china da ragazzo, poi a 18 anni quando ho iniziato a dipingere ad olio, ho smesso completamente. Da qualche anno ho voluto riavvicinarmi alla grafica, uso questo termine non a caso. Pensavo a delle incisioni, ma è una tecnica che richiede una pratica assidua. La penna china è per me ora troppo rigida; il pennino a inchiostro è troppo arcaico e manierato. Ho trovato nella biro uno strumento che ha in sé qualche cosa delle altre tecniche ma è più fluido, scorrevole e meno pretenzioso. E poi il suo blu emana una luce più affascinante più del nero.

Si tratta di una serie di disegni che affiancava una serie di lavori ad olio che non ho ancora presentato, in cui riprendo sempre immagini dell'ottocento ma li ridipingo con colori totalmente antinaturalistici e neo-psichedelici. Con la biro ho sviluppato il tema dell'esotismo e ho deciso poi di farne un progetto a parte; è il B-side di un LP che deve ancora uscire. Ho scelto di utilizzare antiche stampe perché sentivo la necessità (impresa naturalmente impossibile) di saltare tutta l'influenza del novecento e di immergermi in un periodo che, seppur inattuale, per me esercita grande suggestione; più che un avanguardista mi considero un tardo-romantico che vuole evitare il problema del copyright.
Perché la scelta di questo tipo di immagini?
Banalmente perché mi piacciono e me ne voglio appropriare.
Ho trovato nella biro uno strumento che ha in sé qualche cosa delle altre tecniche ma è più fluido, scorrevole e meno pretenzioso. E poi il suo blu emana una luce più affascinante più del nero.

In realtà no. La copia cerca di avvicinarsi il più possibile agli stilemi dell'originale senza mai potere di fatto coincidere con esso. Io mi approprio di ciò che mi attira e cerco d'inglobarlo nel mio sistema di rappresentazione. Copio sì un'immagine ma mi relazioni ad essa come se fosse un elemento parte di una natura morta, una mela o una bottiglia. Comunque, il problema della copia non lo posso sfuggire. D'istinto il mio impulso al disegno è sempre stato quello di copiare con una sorta di senso di colpa; ho finito per accettarlo, perché è un'esigenza che, come dice il visconte di Valmont nelle Relazioni Pericolose, "trascende la mia volontà". Da un artista ci si aspetta la creazione, un termine che mi dà quasi fastidio, ma è un'aporia da cui non riesco a uscire. D'altra parte, anche in pittura, l'appropriazione è una costante novecentesca che gli artisti che considero più interessanti da Bacon a Warhol, a Richter, hanno spesso praticato.

Di sensi di colpa ne ho tanti, ma chiaramente qui mi riferisco alla pratica della copia. All'interno del sistema di pensiero occidentale, cui per altro volente o nolente aderisco, si è sviluppata l'idea che in ogni disciplina la vera grandezza consiste nell'innovazione, nella scoperta o nell'aggiungere qualche cosa di nuovo; chi copia il già fatto, non ci piace. Nell'approccio orientale invece bisogna cercare di avvicinarsi sempre più a un modello di raggiunta perfezione e ripeterlo indefessamente finché non lo si fa proprio; bisogna praticare una precisa modalità fino a che non si diventa liberi e creativi nell'identificazione totale con esso. Io guardo con simpatia a entrambe gli approcci e questo mi confonde le idee. Non ho un modello di perfezione da raggiungere e non sono interessato all'innovazione gratuita. Sono sempre stato un cane sciolto e ho imparato quindi a convivere con questo senso d'estraneità capace di condurre all'isolamento.
La tecnica utilizzata è sempre il calco?
Nei disegni parto dal ricalco dei contorni ma poi vado a mano libera.
Come definiresti i tuoi lavori?
Tutta questa serie ottocentesca composta da quadri e disegni, la vorrei chiamare "appropriazioni inattuali".

Fino al 17 giugno
Geishe, Piramidi & Maharaja
Galleria Blanchaert
piazza Sant'Ambrogio 4, Milano