Illuminazioni

Una lettura della Biennale di Bice Curiger tra i Giardini e l'Arsenale.

Come epifania e come discernimento, come attività in continua evoluzione, esperienza che affina la mente e che potenzia la percezione del mondo in cui viviamo; come rivelazione del visibile, e come luce che illumina il passato con i suoi drammi, il presente con le sue convenzioni, il futuro ineludibile con le sue incertezze. Così intende l'arte Bice Curiger, la curatrice svizzera di questa cinquantaquattresima edizione della Biennale di Venezia. Che infatti alla mostra ha dato il titolo Illuminazioni, e l'ha posta sotto l'egida di Tintoretto, esponente di quella scuola veneziana che nella rappresentazione della luce eccelse e si distinse.

E, letteralmente, Tintoretto apre la mostra, con tre tele incluse all'inizio del percorso del Padiglione Centrale dei Giardini: il Trafugamento del corpo di San Marco, La Creazione degli Animali e L'Ultima Cena.
La concreta presenza di queste opere ha il senso di un omaggio al carattere, mistico e rigoroso al contempo, dell'arte.
Haroon Mirza, Camera anecoica, Arsenale
Haroon Mirza, Camera anecoica, Arsenale
Si tratta, da parte della curatrice, di un atto forte, ma è difficile dire che sia un gesto riuscito: mentre a livello di richiamo simbolico il legame di queste grandi tele con le opere esposte a partire dalla sala successiva risulta potente, nella concretezza della mostra il corto circuito non si genera, la vibrazione potentissima che anima queste opere non si propaga e la loro relazione con le opere del presente è poco attiva: completamente decontestualizzati, raccolti in un'unica sala, appesi sui muri bianchi del Palazzo Centrale ed illuminati in modo uniforme, i quadri appaiono invece isolati, e il senso di rottura implicito nelle composizioni audaci, nelle ombre profonde, nei bagliori improvvisi, la tensione febbrile della lotta tra il buio e la luce restano confinati all'interno delle cornici.
Marinella Senatore, particolare dell'installazione, Giardini.
Marinella Senatore, particolare dell'installazione, Giardini.
Vibra invece letteralmente, a poca distanza da lì, una delle prime opere che incontriamo, quella di Martin Creed, The lights going on and off: una serie di lampadine che proietta intorno la propria luce in modo irregolare e intermittente. Raffinato inventore di oggetti e di segni minimi, Creed ha scelto di mettere in gioco la percezione dello spazio e del tempo dello spettatore piuttosto che di intaccare lo spazio.

Poco più avanti si incontra un labirintico intrico di pareti oblique e di porte sempre uguali: è il para-padiglione di Monica Sosnowska, artista da sempre interessata allo spazio e all'architettura come dimensioni nelle quali si fondono realtà fisica, visiva, psicologica. Rafforza il senso di confusione, la sensazione di perdita dell'orientamento che lo spazio ci trasmette l'ossessiva installazione sonora a base di vibrazioni elettriche di Haroon Mirza. A riportarci alla realtà ci sono però, in queste stanze, le immagini straordinariamente acute di David Goldblatt, il fotografo sudafricano che, a partire dagli anni Sessanta, ha saputo, come pochi altri, raccontare le trasformazioni sociali del proprio paese. Ma proprio sotto la grande struttura eccoci di nuovo immersi in una situazione di instabilità; qui troviamo infatti il lungo film di Omer Fast, artista israeliano che, sulla mancanza di linearità e sulla fusione tra realtà e costruzione, basa tutta la propria opera.
Bice Curiger ha scelto di dedicare ampi spazi agli artisti, consentendo loro di esporre nuclei articolati di opere; il rapporto tra le opere risulta chiaramente declinato, lasciando intendere il desiderio di rendere il percorso intelligibile
Luigi Ghirri, veduta dell'installazione, Giardini
Luigi Ghirri, veduta dell'installazione, Giardini
Il suo Five Thousands Feet is the Best nasce da un'intervista, realizzata con un operatore di un drone statunitense che da una postazione di Las Vegas, quasi fosse alla consolle di un videogioco, colpisce territori di guerra; ma l'artista sovrappone inestricabilmente testimonianze, finzione e dettagli incongrui in un racconto che è insieme tragico e ironico. Dopo questo esordio, tra opere diverse si sviluppa il percorso della mostra del Palazzo Centrale, con alcuni picchi nelle sale che ospitano le opere di Marinella Senatore o di Ryan Gander, o che vedono abbinate installazioni di Kuri e fotografie di Ghirri
Nicholas Hlobo, "Dragone", Arsenale
Nicholas Hlobo, "Dragone", Arsenale
Bice Curiger ha scelto di dedicare ampi spazi agli artisti, consentendo loro di esporre nuclei articolati di opere, in molti casi si tratta di sale intere; ma quand'anche gli spazi siano condivisi, il rapporto tra le opere risulta chiaramente declinato, lasciando intendere il desiderio di rendere il percorso intelligibile: un atteggiamento di forte attenzione nei confronti degli artisti e del pubblico, una forma rispetto che non sempre i curatori delle grandi kermesse dimostrano. Ne risulta una mostra lineare, estremamente ordinata, talvolta frammentata nella narrazione per quanto riguarda la sezione allestita nei giardini, decisamente più organica nella parte dell'Arsenale, dove la continuità dello spazio favorisce uno sviluppo fluido del percorso. Qui l'inizio è affidato a due opere di grande pathos di Roman Ondak: dal buio denso emergono Time Capsule e Stampede; la prima è una replica dello strumento utilizzato con successo qualche mese fa per salvare alcuni minatori cileni rimasti imprigionati sotto terra; la capsula evoca la profondità, il movimento attraverso il tempo tanto quanto attraverso lo spazio; Stampede è un video in cui, come in un tableau vivant, una moltitudine di individui –potremmo essere noi stessi– stanno, immobili, nella luce e nel buio che inesplicabilmente si alternano.
Elisabetta Benassi, particolare dell'installazione, Arsenale
Elisabetta Benassi, particolare dell'installazione, Arsenale
La mostra si dipana con momenti di grande forza visiva, come avviene nello spazio dedicato ai disegni crudeli di Shannon Ebner e al teatrale dragone di Nicholas Hlobo, e con opere intense, con le sculture di Rebecca Warren, le fotografie di Dayanita Singh, i video di Christian Marclay, di Dani Gal, di Mohamed Bourouissa; con le installazioni, di carattere fortemente opposto, di Elisabetta Benassi, di Urs Fischer, di Monica Bonvicini: la prima, composta da una serie di lettori di microfiches degli anni '50 che leggono il retro delle immagini fotografiche senza mostrarcene la facciata "principale", è sottile, animata da luci tenui e da una composizione sonora sussurrata. Il suo senso è legato all'uso indiretto delle invenzioni tecnologiche, all'idea della storia come campo di possibilità solo parzialmente sviluppate.
Christian Marclay, The Clock, video, Arsenale
Christian Marclay, The Clock, video, Arsenale
Le seconde, che segnano la chiusura della mostra, consistono invece in opere teatrali, tragiche e ironiche al contempo: Urs Fischer realizza infatti con la cera a grandezza naturale ritratti di amici o repliche di sculture classiche come Il Ratto delle Sabine di Giambologna. Le sculture vengono quindi accese come candele, e affidate a un processo, non controllabile, di consunzione; Bonvicini allestisce invece una serie di podi autoilluminanti e fatti di specchi, lasciati a disposizione per i nostri cinque minuti di gloria; tre modi diversi di trattare il tema del monumento, e di affrontare la storia, individuale e collettiva, in un mondo in cui dimensione mediatica, virtuale e simulata vanno sempre più compenetrando la realtà che viviamo.
Urs Fisher, replica in cera del "Ratto delle Sabine", Arsenale
Urs Fisher, replica in cera del "Ratto delle Sabine", Arsenale

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