Il gallery weekend di Berlino, che si è svolto dal 29 aprile a questo 2 maggio, è una creatura anfibia: se da una parte la vocazione commerciale lo avvicina alla fiera d'arte, dall'altra il clima festoso, l'intera città che funge da spazio espositivo, ricorda, in un certo senso, una biennale. Il risultato è che la città, per un weekend e le settimane a venire, si trasforma in una mostra collettiva sparpagliata: se non un precipitato di quello che accade in giro, quasi.

La cosa, naturalmente, si complica: perché alcune gallerie hanno scelto, per il gallery weekend, di ospitare mostre collettive (una collettiva nella collettiva?), e altre hanno organizzato, in parallelo, Sunday, una vera e propria fiera d'arte di gallerie emergenti (una fiera nella fiera?), che a propria volta ospitava una mostra collettiva (nella fiera, nella mostra collettiva) intitolata, comprensibilmente, Saturday. Tre mostre collettive, però, sono state il vero centro d'interesse di questo finesettimana: tre modi diversi di rappresentare ciò che succede nell'arte adesso, cosa c'è di nuovo, cosa si è perso, cosa resta.

Si può parlare di storia. "Lost and Found", alla galleria Neugerriemschneider, offre uno spaccato analitico di come molta arte contemporanea cerchi di riflettere sul problema del passato, della sua documentazione, delle sue menzogne: scavi, scavi, e cosa trovi sotto? Le stratificazioni di cemento di Pierre Huygue, la radice identitaria stereotipata e raffazzonata alla meglio di Danh Vo, il misterioso, iconico totem di David Hammons, una torta di sterco d'elefante celebrata da un girotondo di pachidermi. E ancora: Jeremy Deller che analizza i resti della corsa all'oro, Franz Ackermann che mostra decine di porte, come a condurre da qualche parte: ma no, sono porte da calcio.

"Mehr Teppich", alla galleria Isabella Bortolozzi, non è costruita intorno a un contenuto – il passato – ma a una forma: giocando su certe coincidenze nella storia dell'arte, raduna artisti che vanno da Lucio Fontana a Kai Althoff, da Marco Bruzzone a Stefano Arienti, da David Hammons a Aldo Mondino, esponendo unicamente opere che prendono la forma del tappeto. È facile sfruttare la vocazione commerciale delle gallerie per ironizzare sui venditori di tappeti: più difficile è sfruttare i tappeti per costruire una mostra così, ricca e inattesa, a metà strada fra la kunsthalle e il bazar.

C'è dell'altro, però. "The way we do art now", curata da Pavel Büchler alla galleria Tanya Leighton, è una delicatissima riflessione sul cambiamento graduale, su come il significato si costruisca tramite slittamenti progressivi che conducono in luoghi molto lontani dal punto d'origine. Include artisti notissimi o oscuri, agli esordi o a fine carriera, offrendo, nel complesso, un'estetica solida e omogenea, un unico ragionamento. Amikam Toren espone una scultura composta da trent'anni di bucce d'arancia, essiccate dopo la colazione; Leo Fitzmaurice l'invecchiare progressivo di una lista di lattine, che soffrono il tempo come le persone: piano; Pavel Büchler delle sculture disomogenee, fatte di scarti di matite trovate, prese a prestito, nostre; Dean Hughes documenta la sua decisione di riempire le pozzanghere sulla strada di casa, anche quando non piove. Il cuore della mostra è una domanda di metodo, e di contenuto, mutuata da Baldessari: "Come si fa l'arte oggi? Cosa è cambiato quando si è smesso di dipingere, di scolpire, di fare l'arte come si faceva prima? Cosa si fa, adesso?" Ecco, sembra riassumere "The way we do art now": si riempiono pozzanghere, anche quando non piove.
Vincenzo Latronico