Nell'aprile del 2004 Haegue Yang terminò
il montaggio dei filmati che aveva girato
ad Amsterdam, Berlino, Francoforte, Incheon,
Londra e Seul. I documentari che ne sono risultati,
Unfolding Places e Restrained Courage,
rappresentano un'indagine percettiva su queste
città. A completamento della trilogia che aveva
progettato, due anni dopo la filmaker ha rivolto
la sua attenzione al paesaggio urbano di San
Paolo del Brasile per creare, con Squandering
Negative Spaces, un'allegoria sociale spiazzante,
che turba e sorprende. "L'immagine
della città che abbiamo in mente è sempre un
po' superata", ha scritto Jorge Luis Borges (da
Unworthy, 1970). E davvero nelle città di Yang
tutto appare di passaggio. Muovendosi rapidamente
tra centinaia di inquadrature, l'artista
mette insieme i filmati girati con una telecamera
a mano spostandosi nello spazio a piedi o in treno,
in autobus, in auto o in aereo. Riecheggiando
l'evidente fretta dei viaggiatori, le sue narrazioni
si strutturano in base allo spirito di un collage in
movimento, in cui il contrasto degli opposti agisce
come un vero e proprio filo conduttore. Dopo
un po', l'illuminazione stradale si trasforma in
chiaro di luna, mentre il riflesso degli alberi nelle
pozzanghere diventa un altro modo di
entrare con lo sguardo nei nidi degli
uccelli... Non si tratta di immagini
riferite a un luogo, la loro differenza
di collocazione viene resa impercettibile
e la loro nozione di 'autenticità'
è intercambiabile.
Questo processo di osservazione
e di alterazione è presente anche
nel modo in cui Yang costruisce lo
spazio. Concentrandosi sui dettagli
più transeunti ha fatto dell'effimero
un principio estetico centrale
nella sua opera. Nell'installazione Series of
Vulnerable Arrangements – Blind Room, 2006-
2007 (alla mostra "Brave New Worlds" al Walker
Art Center di Minneapolis), che funge da spazio
di visione alla trilogia video, Yang ha concepito
un interno fatto per mostrare quanto per
nascondere. Grazie a decine di tende alla veneziana
nere completamente abbassate, queste
linee orizzontali dividono lo spazio in quattro
sezioni. Parzialmente ruotate a un angolo di
sessanta gradi, le lamine filtrano meno della
metà della luce. La disposizione d'insieme delle
tende segue uno schema preciso che pare
mutuare la sua forma dalle pieghe che restano
su un foglio di carta usato per un origami susseguendosi
attraverso lo spazio come crinali
montani e fondovalle. Fronte e retro, positivo
e negativo si contrappongono formando una
tessitura cangiante di luci e ombre. Varchi tra
una cortina e l'altra contribuiscono a filtrare la
luce verticalmente, mentre lo spazio vuoto al di
sotto lascia intravedere l'interno: due coppie di
sedie e sgabelli, un tavolo, cavi elettrici e due
lampade da terra.
Il percorso che porta alla Blind Room di
Haegue Yang è marcato da effetti visivi e percettivi:
la fresca brezza di un condizionatore d'aria
posto sopra l'ingresso e la vampata di calore
di una lampada a raggi infrarossi di fianco. Di
fronte, un grande disco bianco proiettato sulla
parete richiama l'attenzione, grazie a un enorme
riflettore, forse destinato a chi vuol essere visto
o ascoltato; o forse no. Nello spazio accanto c'è
un tavolo con sopra degli oggetti, e intorno è
stato lasciato sgombro un percorso per poter
osservare più da vicino ciò che ci sta sopra. Un
senso di solitudine permea questa zona, perché
si comprende, prima di entrarci, che questo percorso consente di passare solo a una persona
per volta; perciò occorre mantenere una certa
distanza tra chi precede e chi segue. Mentre
si procede un odore acre, come di pneumatici
bruciati, ci ricorda cosa sia un puzzo rivoltante.
Su un tavolo Yang ha sistemato una serie
di delicate strisce luminose, numerosi origami
colorati a forma di stella oltre a fotografie di
blocchi per appunti in fotocopia. Da sotto il tavolo,
un umidificatore crea una nube di vapore che
scaturisce da un foro, trasformando il tavolo in
un palcoscenico in miniatura per cui inventare
una storia. Uscendo da questo spazio un ultimo
aroma fa la sua comparsa, questa volta indubbiamente
familiare: riconosciamo l'odore di
biancheria pulita.
Gli oggetti cui Yang dedica la sua attenzione
non sono mai simboli arbitrari o esclusivamente
materiali. Nel suo concetto di rapporto
sociale la luce, il calore, l'odore e il suono sono
forme tangibili, codificate con valore di immagine
e investite del privilegio di possedere più di
un'unica funzione. Uno degli oggetti ricorrenti di
Yang, la lampadina, trae valore referenziale dal
suo 'comportamento' negli spazi oscuri, passando
dall'audace autonomia alla timida asfitticità.
Questi oggetti luminosi variano per scala,
colore e voltaggio, perché l'autrice non ricerca
solo l'illuminazione, ma un gesto di presenza da
realizzare in uno spazio dato.
Sul tavolo della Blind Room l'artista presenta
raggruppamenti di due, quattro e sei luci
in forma di costellazioni, ma un'unica
luce bianca lampeggia a scatti
violenti in completa anarchia, per
conto suo. Un altro oggetto ricorrente
del lessico di Yang è la tenda alla
veneziana. Queste tende dividono
e riconciliano lo spazio affermando
e negando la luce. La loro funzione
nell'universo di Yang è di surrogare la
percezione sottolineando la soggettività
della visione. Come ha dichiarato
l'artista "Questo tipo di tenda mi
affascina per la sua funzione di filtro
della luce, che crea una parete semitrasparente
tra due spazi. È questo spazio tra le persone
che mi interessa profondamente. Non siamo
soli. Vediamo altre persone che si muovono nella
penombra. Siamo insieme ma non siamo insieme"
(in "Artist Haegue Yang at Redcat" di Lynne
Heffley, Los Angeles Times, 16 luglio 2008). In
Blind Room, luci e tende segnano momenti di
transizione ma anche di transazione, astraendo
i rapporti sociali tra 'io' e 'tu' per farli coesistere
con discrezione, suggerendo contemporaneamente
prossimità e distanza, e provocandoci
giocosamente tra essere e non essere.
Nel terzo spazio ci attende la trilogia di
Yang, proiettata su tre schermi. Accompagnano
le immagini in movimento tre diversi parlati che
raccontano aneddoti su incontri curiosi, meditazioni
sulla "ricerca di luogo" da parte dell'uomo
e riflessioni sul volontario esilio dell'artista.
Le contemplazioni verbali e visive di Yang sullo
spiazzamento prendono in esame i rapporti conflittuali
tra terra straniera e terra natale in tono
di protesta. "Anche se la maggior parte del mio
lavoro è guidata da una voce silenziosa, l'atto
linguistico' con un interlocutore potenziale
è fondamentale", afferma Yang. "È un dialogo
tra 'individui', la cui collocazione è piuttosto
vaga, mentre la loro identità di 'senza casa' è
definita, un po' come avviene con le 'comunità
dell'assenza' di Bataille. Anche se i filmati provengono
da luoghi diversi, l'opera non si presta
ad alcuna esperienza di viaggio. Il parlato è una
riflessione sul perdersi, sul perdere continuamente
se stessi, negando distinzioni territoriali,
senza audacia, mentre vari scenari urbani collaterali
ed elementi drammatici si dispiegano" (dal
catalogo della 27a Bienal de São Paulo, a cura
di Lisette Lagnado e Adriano Pedrosa).
Ma cosa significa "perdersi continuamente"
quando si parla di vedere? In che modo perdersi
implica perdere la visione, in quanto affermazione
di una cecità necessaria che restituisce visione
e forse capacità di trovare? Ripiegata dietro la
parete della terza stanza, una fila di tende alla
veneziana ne supera i confini per formare uno
spazio esterno a sé. All'interno, uno specchio è
appeso alla parete, nascosto. Il diametro è pari a
quello del cerchio di luce proiettato sull'altro lato
della parete, all'ingresso dello spazio. Per vedere
quest'ultimo, calcolato dispositivo occorre uscire
da Blind Room, cioè per vedere bisogna trovare.
È qui che l'ironia poetica di Yang provoca, per
l'ultima volta, la nostra curiosità. Sbirciando dalla
veneziana si trova la terra natale, si trova se stessi.
L'immagine del vedere, se così si può chiamare,
è un'immagine del ritrovamento di se stessi. "La
paura può causare la cecità, disse la ragazza
con gli occhiali scuri", scrive José Saramago
(in Cecità, Einaudi, Torino, 1996). "'Niente di più
vero, che potrebbe non essere più vero, eravamo
già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati,
la paura ci ha gettato nella cecità, la paura ci
manterrà nella cecità.' 'Chi ha parlato', chiese
il dottore. 'Un cieco', rispose una voce, 'solo un
cieco, perché qui c'è solo lui.'"
Haegue Yang
La Blind room come opera emblema della visione dell'artista coreana che usa la sua ironia poetica per creare spazi polisensoriali. Testo Yasmil Raymond. Foto Gene Pittman.
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- 17 febbraio 2009