La luce dell’Oriente

Un incendio in Cina riaccende un’antica tensione: da Delacroix a Gérôme fino a Van Gogh, ecco come l’Oriente ha nutrito, distorto e ispirato lo sguardo dell’arte occidentale.

Zhangjiagang, Jiangsu. 18 novembre 2025. Un vasto incendio ha quasi interamente distrutto il Padiglione Wenchang all'interno del complesso buddista del Tempio Yongqing. Le fiamme hanno rapidamente consumato la struttura lignea, compromettendo un bene considerato di alto valore storico-culturale, sebbene fosse una ricostruzione moderna dell'antico edificio. I vigili del fuoco sono intervenuti per contenere il rogo ed evitare che si propagasse ad altre sezioni del complesso monastico, fondato originariamente nel 536 d.C. Nessuna vittima è stata registrata, ma i danni materiali sono ingenti.

L'incendio che ha ghermito il padiglione del Tempio Yongqing rappresenta il collasso di un'architettura, l'evaporazione di una logica estetica che per millenni si è distinta dalla nostra: quella dell'arte orientale, non solo come rappresentazione, ma anche come un mistero affascinante.

Vincent van Gogh, Ritratto di père Tanguy (versione finale), 1887, Musée Rodin, Paris, via Wikimedia Commons

Laggiù, la pittura e la calligrafia si confondono in un'unica disciplina del gesto, dove l’inchiostro celebra il "vuoto" che ha più significato del "pieno", e dove l'energia vitale, il qi, anima ogni linea. È un'arte che non teme il tempo ma lo assorbe, che venera il bambù per la sua flessibilità e la roccia per la sua eternità, lontanissima dalla nostra ossessione per la forma e per la tridimensionalità. Questa essenza, così sfuggente al rigore cartesiano dell'Occidente, ha inevitabilmente generato una fascinazione e una profonda incomprensione che ha plasmato il fenomeno dell'Orientalismo nella pittura.

Il Vecchio Continente, nell'incapacità di comprendere la filosofia che stava dietro la lacca e la seta, non ha saputo fare altro che appropriarsi, se non fisicamente, almeno visivamente, di questo altrove. Questa raffinata compostezza, questo rigore formale un tempo lontano generò in Occidente una curiosità bulimica.

L’Oriente è stato per l’arte occidentale un mistero affascinante: una fonte di ispirazione, ma anche di distorsione.

Si tratta di un'attrazione complessa, spesso una vera e propria seduzione, esercitata dal mistero percepito dell'Asia, non solo quella mediorientale dei mercati e degli harem che affascinò Gérôme e Delacroix, ma in senso lato, tutto ciò che era "Est". Era il XIX secolo, e i pittori europei, saturi di neoclassicismo e accademia, cercavano altrove la luce, il colore, la passione, il selvaggio che credevano perduto nella loro Europa industriale e borghese.

Alberto Pasini, Cairo, 1860, The Metropolitan Museum of Art di New York (prestito), via Wikimedia Commons

L'Orientalista non era solo un artista, era un viaggiatore dell'immaginario, che proiettava sui costumi esotici, sui tappeti preziosi e sulle figure ammantate le proprie fantasie di opulenza e arretratezza, creando un repertorio visivo di grande impatto ma, non dimentichiamolo, spesso intriso di stereotipi coloniali e di una comprensione superficiale. L'oggetto orientale, che fosse una stampa giapponese o l'idea di un tempio lontano, diventava la chiave per sbloccare una pittura più audace, più satura di colore, capace di rompere gli schemi. È il fascino dell'altro, magnificato e spesso mal compreso, che da un lato distorceva la realtà, ma dall'altro spingeva l'arte a confrontarsi con linguaggi formali totalmente nuovi, generando una tensione creativa che è, in fondo, la vera linfa vitale di ogni epoca artistica.

L'orientalista è stato un collezionista di immagini rubate, un regista di un teatro di posa esotico. E pochi hanno incarnato questa idea con la fredda maestria di Jean-Léon Gérôme. Si pensi ad esempio a L’incantatore di serpenti: siamo in un ambiente iper-realista, ossessivamente dettagliato nelle piastrelle anatolico-ottomane che coprono il fondo, ma la scena è un allestimento privo di calore.

Eugène Delacroix, Donne di Algeri nei loro appartamenti (Femmes d'Alger dans leur appartement), 1834, Museo del Louvre, Parigi, via Wikimedia Commons

Al centro, leggermente spostato a destra, un ragazzo nudo, o quasi, maneggia un rettile davanti a un pubblico di notabili e mendicanti che ostentano indifferenza. L'opera è un saggio sulla lontananza dove Gérôme immobilizza il momento, lo rende muto, per permettere all'occhio occidentale di consumare in tutta tranquillità l'esotismo della pelle, della povertà, della ritualità, senza mai farsi coinvolgere. La sua nudità è intellettuale, una fredda, clinica fascinazione che si nutre del mistero.

E se Gérôme era il reporter accademico orientalista, Eugène Delacroix ne fu l'interprete romantico e passionale. Nella sua opera Donne di Algeri nei loro appartamenti (Femmes d'Alger dans leur appartement), la pittura si accende di un fuoco interiore, di un erotismo non voyeuristico ma intimo.

Vincent van Gogh, Autoritratto con l'orecchio bendato, 1889, Courtauld Gallery, Londra, via Wikimedia Commons

Delacroix entrò in questo harem (un privilegio rarissimo), e riportò un catalogo di pose in una sinfonia cromatica in cui l'aria si fa densa di profumi e silenzio. La deflagrazione dei gialli, dei rossi profondi e dei blu saturi scardina la composizione accademica, trasformando l'osservazione in un'esperienza sensoriale. Qui, l'Oriente non è più solo una scenografia da teatro, ma un'anima vibrante, un locus emotivo dove la luce modella il mistero dei tessuti e degli sguardi.

Non possiamo però dimenticare Vincent Van Gogh che, nel suo Autoritratto con orecchio bendato, inserisce l’oriente più estremo, dipingendo alle sue spalle una stampa di Sato Torakiyo con delle donne giapponesi e la sagoma del Monte Fuji. 

L’Orientalista era un viaggiatore dell’immaginario, che proiettava sull’altro le proprie fantasie di opulenza e arretratezza.

L'oggetto esotico modifica attivamente la topografia compositiva dell’opera, sintomo della profonda fascinazione che l’ oriente esercitò sull'artista, un'attrazione che travalica il gusto decorativo per toccare la radice della filosofia della forma. La pittura giapponese, con la sua bidimensionalità risoluta, i suoi contorni netti e la sua negazione del chiaroscuro atmosferico, offriva a Van Gogh un modello per superare la crisi della rappresentazione naturalistica europea. Le citazioni formali, che riaffiorano in diversi suoi dipinti attraverso stilemi che riecheggiano la stilizzazione e la sintesi orientale, non sono dei semplici omaggi, ma moduli visivi di una realtà emotiva e cromatica nuova, quantomeno per l’occidente.


Un dialogo lungo due secoli: quello tra un'arte che cercava il proprio centro nel silenzio e nella natura, e un'arte che, attraverso l'Oriente, cercava di ritrovare il proprio colore e la propria passione, in un'eterna tensione tra il desiderio di comprendere e l'irresistibile tentazione di possedere l'immagine.

Immagine di apertura: Jean-Léon Gérôme, L'incantatore di serpenti, 1880, Clark Art Institute, Williamstown, via Wikimedia Commons

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