Frank Gehry nelle pagine di Domus, tra cheapscape, Fondation Vuitton ed effetto Bilbao

Oltre sessant’anni di archivio Domus ci restituiscono il ritratto di una figura poliedrica, che ha sfidato la tecnica per affermare quanto l’architettura sia (anche) un’opera d’arte.

Frank Owen Gehry, nome d'arte di Ephraim Owen Goldberg, è uno dei massimi nomi dell'architettura contemporanea, uno di quelli a cui ci si riferisce quando si parla delle archistar o di quelle opere così spettacolari da andare oltre il compito per cui sono state progettate, opere d’arte in sé. Dalle sponde del Lago Ontario agli esordi sulla West Coast, passando per il Premio Pritzker assegnato nel 1989, lo stile di Gehry ha accompagnato e rappresentato alcuni strutturali cambiamenti sociali e tecnologici dal secondo dopoguerra ad oggi. Attraverso carotaggi tematici e una sintesi cronologica estratta dall’archivio digitale, ne ripercorriamo i momenti principali, ridando voce a chi ne ha scritto su Domus fino a oggi.

Gehry appare per la prima volta sulle pagine di Domus nell’agosto del 1979 con la realizzazione  della sede della Mid-Atlantic Toyota, un edificio fondato sull’idea di “uffici aperti in uno spazio chiuso”.

Domus 699, ottobre 1979

Lo scardinamento di schemi tipologici convenzionali, tratto che accompagna gran parte della sua opera, compare anche due mesi più tardi nella sua casa a Santa Monica. È un edificio che sembra ancora in costruzione, un montaggio di elementi che si aggrappano a un corpo preesistente creando un’immagine che stride con il cliché delle ville suburbane.

È una casa che non lascia dubbi sulla identità del suo abitante - ne riflette i sogni e le ossessioni. È emozionante perché rivela molto del suo autore ed esige da noi tutta l'attenzione

Barbara Goldstein in Domus 599, ottobre 1979

Tuttavia, l’entrata in grande stile avviene nel 1980, quando Gehry è ritratto nella fotografia di Donatella Brun nella copertina di Domus 604 e introdotto come chiave di volta per leggere l’architettura californiana. Nelle parole memorabili di Alessandro Mendini che seguono, leggiamo: "ognuno di noi è un piccolo Palladio che realizza una piccola rotonda, classica e chiusa, concepita come nobile forma isolata in un mare di immondizia tu invece lavori alla rovescia, in un certo senso concepisci e fabbriche a priori dei detriti architettonici. Ogni tua casa, che io trovo bellissima e assomiglia sempre più a una pattumiera di pezzi di architettura e di città.”

Domus 604, marzo 1980

Nel decennio che segue, Vittorio Magnago Lampugnani racconta il complesso universitario ad Irvine, in California (Domus 679, gennaio 1987). Gli anni ’80 però segnano anche le prime mostre personali e le partecipazioni alle Biennali veneziane del 1980 e del 1985, che lo annoverano ai grandi interpreti di una contemporaneità che cerca faticosamente di emanciparsi dalla vulgata postmoderna.

È alle soglie del 1990 che viene inaugurato il primo edificio europeo, il Vitra Design Museum (Domus 713, febbraio 1990), progetto che segna l’inizio di una rapida transizione verso una nuova fase nell’opera di Gehry, dall’assemblaggio di oggetti allo “stile libero”. Da qui in poi, la sua architettura trova le ragioni nel colpo d’occhio generale, nello stupore del gesto, di cui si coglie il senso di moto e l’energia cinetica, e nel dualismo che nasce tra contenuto e contenitore nei suoi edifici. 

Il rapporto tra arte e architettura è un tema via via più importante non solo negli esiti dei progetti, ma soprattutto nelle loro genealogie e metodologie creative. Il costante rapporto con gli artisti contemporanei costituisce un’inesauribile fonte di stimoli creativi con cui Gehry si misura, nella convinzione che l’architettura possa sintetizzare sensibilità plastica, gesto scultoreo, definizione materico-formale, ed esperienza dello spazio, all’insegna di una grande libertà, a tratti indipendenza, dal programma funzionale. 

Ho sempre pensato che lavorare con i modelli fosse una questione di pigrizia: ero troppo pigro per riuscire a visualizzare dentro di me e così pensai di usare i modelli come stampella. Adesso li uso in modo differente. Ci progetto. Lavoro un po’ come uno scultore, plasmo, sposto, provo, per tornare poi all'intenzione iniziale
Domus 798, novembre 1997

Si è soliti dire che c’è un Gehry prima e c’è un Gehry dopo il Guggenheim di Bilbao (Domus 829, settembre 2000), e lo stesso si potrebbe dire per la città stessa di Bilbao, che affida al talento di Gehry il rilancio mediatico delle sue trasformazioni post-industriali e fa sì che diventi una tappa obbligata del Grand Tour d’Europa del XX secolo. Il testo di Sebastiano Brandolini, che accompagna le memorabili immagini del Guggenheim, lo presenta come un vascello fantasma, un castello di ghiaccio di cui non si può comprendere subito il peso specifico ma da cui si resta inevitabilmente sensualmente attratti (Domus 798, novembre 1997).

Così, quelli venuti dopo, sono epigoni di Bilbao, frutti di un successo mediatico e di uno stile inconfondibile (Domus 829, settembre 2000) che non lo mette al riparo da alcune critiche. Se Suzan Wines, infatti, parla di una “Bilbao a New York”, in occasione della richiesta del Guggenheim della Grande Mela di un progetto di ampliamento, Rowan Moore scrive di un Gehry che nell’Experience Music Project di Seattle perde la tensione creativa tra arte colta, messa in scena populista, orgoglio civico e seria opera architettonica.

Nell’Experience Music Project, Gehry incurva le superfici più audacemente di quanto non avesse fatto in precedenza. Il suo stile qui è libero, scomposto, anticlassico più che mai

Rowan Moore in Domus 829, settembre 2000

Per certi versi, il Guggenheim di Bilbao ha anche una sorella: la Walt Disney Concert Hall, che è la prima grande architettura che Gehry realizza nella sua Los Angeles. Michael Webb racconta in Domus 863 questa impresa, iniziata nel 1987 con la donazione di 50 milioni di dollari da parte di Lillian Disney e terminata ben 16 anni dopo con un costo di 276 milioni, ripercorrendo le tappe principali di una “saga” che, oltre a donare un nuovo volto alla città californiana, ha sancito definitivamente uno degli stilemi più caratteristici del lavoro di Gehry.

Domus 863, ottobre 2003

È in questi anni che si brandizza un altro aspetto dell’architettura di Gehry, oltre alle nuove icone urbane agognate dalle committenze di tutto il globo. Si tratta dei metodi del progetto e delle sue narrative, evidenti in quella indecifrabile tensione tra lo schizzo originario e le esplorazioni plastiche attraverso il modello 

Nel frattempo, prosegue un’intensa sperimentazione sulla deflagrazione della forma architettonica, sull’arbitrarietà e l’immediatezza del gesto che non rinuncia alla qualità degli spazi, come racconta la retrospettiva allestita nel Guggenheim di Wright e raccontata in Domus 837, maggio 2001, dove compaiono anche i principali cantieri in corso.

In Domus 839 è Deyan Sudjic è spiegare perché il complesso della DG Bank sulla Pariser Platz è un’operazione culturale di estremo interesse nel contesto di una Berlino ancora in via di ri-costruzione. All’ombra della Porta di Brandeburgo, dove i vincoli urbani imposti dai pianificatori si incontrano, e in alcuni casi scontrano, con le ragioni dell’architettura, nasce un esemplare unico di architettura gehriana: un edificio che cela all’interno di regolari prospetti urbani un’inaspettata hall interna dove troneggia la celebre sala conferenze plasmata come una grande testa di cavallo.

Domus 839, luglio 2001

Gehry torna su Domus nel numero 876, dicembre 2004, in dialogo con il direttore d’orchestra Pierre Boulez e il giornalista Paul Holdengräber sui temi che legano architettura, musica e tecnologia. È in questa occasione che emergono alcuni riferimenti alla cultura di progetto che appaiono decisivi nel lavoro di Gehry, come la Berliner Philharmonie, dove Gehry rimane colpito dalla grande naturalezza con cui Hans Scharoun conduce il pubblico dagli spazi esterni, all’epoca mutilati dal Muro di Berlino, all’interno della sala da concerto.

I rigidi regolamenti edilizi di Berlino sono interpretati creativamente nella più recente architettura di Frank Gehry, una banca tanto mite all'esterno quanto sensazionale all'interno

Deyan Sudic in Domus 839, luglio 2001

Dieci anni dopo, è Parigi ad accogliere l’ultimo edificio di Gehry: la Fondazione Louis Vuitton. L’architettura reinterpreta l’estetica del padiglione vetrato nel parco, dal Crystal Palace di Paxton alle strutture temporanee dei vicini Jardin d’Acclimatation, attraverso una forte implementazione delle tecnologie digitali non solo per la progettazione degli spazi ma anche per la realizzazione dei pannelli in vetro e in cemento rinforzato. Le ampie vele, già viste in titanio e acciaio a Bilbao e Los Angeles, vengono qui rilette come un dispositivo per offrire riparo mantenendo un grande legame con la vegetazione del Bois de Boulogne. 

Domus 985, novembre 2014

Anche se la Fondazione Louis Vuitton è l’ultima architettura a cui Domus ha dedicato ampio spazio, l’opera di Gehry è stata costantemente richiamata negli ultimi anni, sia come coordinata di riferimento storiografica sia nel merito dell’apporto specifico alla cultura di progetto. Nel numero 1022 di marzo 2018, Vittorio Magnago Lampugnani additava a Gehry la colpa di aver inaugurato, con il Guggenheim di Bilbao, il fenomeno della spettacolarità nelle forme di sviluppo urbano contemporaneo. Due mesi prima, nell’ambito di un lavoro di catalogazione critica del suo archivio, Jean-Louis Cohen rileggeva la prima casa losangelina per il grafico Lou Danziger (1964-1965), dove già si intravvedevano le trame latenti di quelle intersezioni socioculturali che hanno da sempre nutrito il lavoro di Frank O’ Gehry.

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