È facile pensare a storie il più possibile opposte tra loro, almeno in apparenza: l’architettura ne è piena, basta pensare alle storie degli émigrés europei negli Stati Uniti dopo gli anni ’30, prima connessi in vicende comuni e poi sparsi su diverse coste e in diversi deserti, pur sapendo di essersi conosciuti.
Facciamo un altro di questi giochi per opposti e partiamo dal Lago di Ginevra: la prima storia è quella della riviera della Vaude, tra Montreux e Vevey, dove da inizio’900 si catalizza una tale densità di high society, intellettuali e figure centrali per cultura internazionale da non aver nulla da invidiare alla Costa Azzurra e alle sue viscontesse di Noailles (probabilmente le liste invitati delle feste erano le stesse, ma qui non è ancora stato verificato). Arte chiama arte, e Adolf Loos aveva già costruito in zona la sua Villa Karma, a Clarens, nel 1906.

La seconda storia è quella di Hermann Henselmann, un architetto tedesco formatosi nella prima metà del secolo e poi diventato celebre nel secondo dopoguerra come l’architetto della DDR e del nuovo paesaggio urbano di Berlino Est. Al suo nome si associano gli edifici della Stalinallee, oggi Karl-Marx-allee, e il disegno più celebre della città, quello della Fernsehturm, la torre della TV di Alexanderplatz. Fatto secondario per niente secondario: dalla fine della guerra Henselmann dirige anche l’Accademia Statale di Architettura e Belle Arti a Weimar, in altre parole l’erede orientale della Bauhaus, con cui vorrà ritrovare e rafforzare il legame culturale.

Due mondi, ma solo in apparenza: il loro punto d’incontro sta proprio nel Bauhaus, e nel fatto che tutti, o quasi, possono ammettere di avere avuto un’altra vita, precedente, successiva o anche parallela a quella per cui li si ricorda.
Nella sua “vita prima di sé”, infatti, Henselmann si trova a costruire la casa che il suo amico Alexander Ferenczy, architetto e scenografo tedesco, ha progettato a La Tour-de-Peilz a partire dalla fine degli anni ’20, rispondendo alla committenza già di per sé più moderna disponibile in riva al lago: la scrittrice inglese Winnifred Bryher era arrivata nel cantone con la poetessa e romanziera americana Hilda Doolittle, con cui aveva una relazione aperta. L’amante di Doolittle, il regista Kenneth Macpherson diventa anche il marito di Bryher, e con lei il committente di una villa che prenda i loro nomi, la villa Kenwin.
Il loro amico Ferenczy concepisce un edificio che è un manuale di principi spaziali e compositivi del moderno e più specificamente dell’approccio Bauhaus all’architettura: è un solido puro, solcato da lunghe finestre a nastro, svuotamenti di piani sorretti da pilotis, tetti terrazza; la torretta curva che contiene le scale è forse la connessione più diretta coi principi della scuola di Weimar e Dessau, assieme alle superfici bianche contrastate da linee e campi netti di colori primari, roba da evocare il Vorkurs (corso preparatorio) che Johannes Itten teneva alla scuola, o il dialogo tra Vassily Kandinsky e le avanguardie.

È un discorso che si estende anche, forse soprattutto, agli interni, dove domina la pianta libera, resa possibile dalla razionalizzazione della struttura, dove la spazialità è valore centrale – come mostrano la balconata curva che si affaccia sul salone a doppia altezza, e le prospettive che si aprono attraverso tutti gli ambienti mettendoli in relazione – e dove nell’ottica Bauhaus di sintesi delle arti, anche l’arredo e la progettazione dello spazio domestico diventano parte del progetto architettonico: Henselmann avrà un fitto scambio con Bryher a proposito, e farà arrivare per la villa linoleum, sistemi d’arredo prefabbricati e lampade prodotte a Berlino.
Anche il rapporto della casa col paesaggio, con la riva del lago, rende questo progetto tutt’altro che isolato rispetto alla storia dell’architettura di quegli anni: la fluttuazione del volume nella natura e su un terreno non complanare è qualcosa che si ritrova in capolavori della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) come la Haus am Rupenhorn di Hans e Wassili Luckhardt con Alfons Anker.
Henselmann completa la commessa nel 1937, a valle di un progetto dove erano confluite arte, architettura, letteratura, anche scienza e psicanalisi (le frequentazioni dei clienti includevano Einstein e il regista Pabst, ma avevano anche annoverato Sigmund Freud). Disabitata lungo la guerra, conoscerà poi un lento degrado lungo i decenni fino a che nel 1987 un restauro firmato da Giovanni Pezzoli non ferma la clessidra rimettendo in luce i valori fondamentali di un progetto intrinsecamente Bauhaus: è un restauro che farà riconoscere l’edificio come proprietà d’importanza nazionale per la svizzera, di fatto un’iscrizione tra i beni culturali tutelati dal paese.
Oggi torna in vendita, e ancora una volta il cuore della notizia, oltre alla possibilità pur riservata a pochi di comprare un’icona del moderno, è che questa icona può essere reimmessa nel flusso della storia e non solo musealizzata: un segno di vita, forse più possibile vicino a quella che aveva dato vita al progetto quasi un secolo fa.
Immagine di apertura: Alexander Ferenczy, Hermann Hanselmann, Villa Kenwin, La Tour-de-Peilz. Foto © Architecture de Collection