“Ecomostri”, “usines à gaz”, “torte nuziali rovesciate”, “più bei punti panoramici nella città” (in quanto unici punti in cui non li si può vedere) o, apoteosi del didascalico, “ca’ Brutta”.
Questo, quando non ci si è limitati alla più semplice noia ostentata, è quanto certi edifici sparsi per il mondo si sono meritati dal dibattito pubblico, e più che altro da chiunque non appartenesse ad una specifica categoria: gli architetti.
Perché determinati edifici hanno avuto vita dura, o perlomeno controversa, mentre solo gli architetti parevano esserne innamorati?
E sia chiaro che non si va parlando di opere secondarie o nascoste, ma spesso di icone come il Centre Pompidou, o di progetti diventati cult come le visibilissime “Lavatrici” di Prà a Genova.
10 architetture detestate, ma che gli architetti amano
Tra brutalismo e postmoderno, e maestri come Aldo Rossi, i Bbpr e gli Smithson, un viaggio tra quegli edifici che sono sembrati controversi per tutti, tranne che per gli architetti.
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Domus 697, settembre 1988
Domus 697, settembre 1988
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- Giovanni Comoglio
- 01 aprile 2025
What the hell is that?
John F. Collins, sindaco di Boston, primi '60
Le origini del fenomeno sono diverse. Spesso la ricezione controversa degli edifici ha in realtà coinciso con la ricezione controversa di movimenti o tendenze, come il brutalismo o il postmoderno, che come pochi sono riusciti a polarizzare detrattori e sostenitori.
Altre volte sono state questioni più radicalmente sociali a rendere invisi ai più certi edifici che hanno incarnato i fallimenti di intere città davanti a temi come periferie e crisi abitative.
Altre volte si è trattato di grandi questioni culturali alle quali questi edifici hanno dato un’immagine, di volta in volta denigrata o sostenuta: troveremo perplessità da parte di Manfredo Tafuri (“diga insicura”) come di Jean Baudrillard (“oggetto mostruoso”), di Reyner Banham (“ritirata dell’Italia dal Movimento Moderno”) come degli stessi committenti dei progetti in questione (“What the hell is that?!”).
Lasciamo a voi di scoprire quale degli edifici che abbiamo selezionato si è aggiudicato ciascuna di queste critiche, tra icone postmoderne come il Portland Building di Richard Graves o brutaliste come l’Unité d’Habitation (Le Corbusier), i Robin Hood Gardens degli Smithson, adesso demoliti, o le sedi governative di Paul Rudolph presso New York. E naturalmente non mancheranno all’appello Aldo Rossi, la già citata Ca’Brutta o la Torre Velasca. Ultima nota: persino Gio Ponti, non certo un alfiere del Neoliberty, ritenne necessario intervenire dalle pagine di Domus (381, agosto 1961) a difendere la Velasca, pur avendo da poco inaugurato una sua antitesi in cemento e vetro come il Grattacielo Pirelli. Ancora una volta era un architetto a difendere un’architettura, dicendo: “Anche se per le derivazioni formali che si vogliono riscontrare nella Velasca può parere il contrario, la Velasca è un'opera nuova ed anticonformistica, se la si pone al confronto dei conformismi in corso. (...) Ed è per questo che trovandomi davanti ad una espressione insigne, che amo all'infuori d'una situazione polemica che attorno ad essa si è determinata, io mi allieto che la Velasca esista”.

Il nome è già un programma. “Pare di vedere in sogno uno di quegli stranissimi quadri cubisti, nei quali dopo un certo tempo, neppure l'artista ci capisce più nulla e là dove manca la capacità di tracciare una linea diretta e un segno armonioso, supplisce la metafisica”: è la critica con cui il quotidiano Il Secolo accoglie un edificio “scandaloso” per la sua epoca. La critica esprime l’avversione alla scuola metafisica e allo stile Novecento, che stava prendendo piede in Italia, e a cui questo primo progetto di Giovanni Muzio – collage di materiali diversi, trompe-l-oeil, ed elementi classici a nascondere una struttura in cemento armato – farà da manifesto.
Atterrata nel centro della Milano del Boom, vicinissima al Duomo, questa torre di uffici e residenze, è subito scandalosa per l’opinione pubblica – è alta e isolata rispetto a tutta la skyline circostante, la sua forma con la testa aggettante non ha precedenti – e in realtà anche per il dibattito architettonico. È una delle opere che dichiarano quella “ritirata dell’Italia dall’architettura moderna”, come scriverà Reyner Banham, che è il Neoliberty, un’architettura attenta alla presenza del passato, al dettaglio e al valore della decorazione, qui espressi tra echi medievali, contrafforti, cornici e graniglie di marmo.
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“Pompidoleum” o “usine à gaz” (officina del gas) come lo chiamò alla nascita Jean Clair, Conservatore generale del Patrimonio francese, o direttamente “oggetto mostruoso”, stando invece alle parole del sociologo Jean Baudrillard, non esiste edificio che più del Centre Pompidou abbia generato polemiche furiose contrapposte a entusiasmi senza precedenti. Macchina esibizionista delle sue meccaniche, con strutture e impianti portati all’esterno, in contrasto con la Parigi medievale e seicentesca, è un centro culturale che vuole portare la cultura nel mondo dei consumi, è “l’effetto Beaubourg” che proprio Baudrillard inventa: “…la cultura vi era in qualche modo sovraesposta e saccheggiata, abbandonata a un sovraconsumo delirante... un buco nero culturale. E l'agente della sua scomparsa sono state proprio le masse che dovevano diventare i consumatori di cultura”. Naturalmente, è anche l’architettura madre dell’High Tech globale.
Fresca cinquantenne, il passare del tempo non ha reso questa torre di 210 metri granché più tollerabile alle masse parigine. Si continua a dire che in città il panorama più bello è proprio dalle sue finestre – perché così non la si vede – eppure presidenti come Mitterrand, Chirac e Macron ci hanno stabilito la sede delle loro campagne elettorali. Questo perché l’edificio di Jean Saubot, Eugène Beaudouin, Urbain Cassan e Louis de Hoÿm de Marien nasceva per incarnare le aspirazioni di una nuova generazione di cittadini dopo la guerra, creando una piastra moderna che integrava una nuova stazione e nuovi servizi, al centro di un quartiere decaduto.
La storia di questo edificio è quella del rapporto ambivalente tra opinione pubblica e brutalismo, di cui Paul Rudolph con le sue opere è uno dei nomi più importanti. Presto osteggiato e candidato alla demolizione dalla sua stessa proprietà, a causa di danni e perdite seguiti a tempeste e uragani, ha saputo subito riunire sul fronte opposto una grande mobilitazione che ne chiedeva la preservazione. È stato poi parzialmente demolito, ricostruito e ampliato tra il 2015 e il 2017.
Forse il caso più celebre di brutalismo polarizzante, il municipio di Boston riesce a ricevere un Honor Award dall’American Institute of Architects all’inaugurazione, e gli elogi della critica d’achitettura del New York Times, Ada Louise Huxtable; ma allo stesso tempo anche innumerevoli prese in giro (“torta nuziale ribaltata”), persino uno shock davanti ai disegni (“what the hell is that?”) da parte del sindaco che nondimeno lo realizzerà. Una conclusione alla diatriba arriva nel gennaio 2025, quando l’architettura viene dichiarata patrimonio cittadino, col titolo di Boston Landmark.
Più che un singolo edificio, l’Unité d’Habitation è un concetto, la Cité Radieuse, visione programmatica di Le Corbusier per un habitat popolare postbellico (oltre alla prima di Marsiglia, ne troviamo altre a Rézé, Briey, Firminy e Berlino) un nuovo capitolo dopo quelli che avevano fatto dell’architetto svizzero un riferimento del Moderno. Riunisce in un edificio tutte le funzioni di una città, e le colloca ai margini della città stessa, forse per questo viene inizialmente accolta con diffidenza dai destinatari. La generosità in servizi e spazi comuni – il corridoio-strada aerea a doppia altezza, la celebre terrazza – non passerà inosservata, come le strutture in cemento a vista faranno dell’Unité la madre del brutalismo, e gli interni sviluppati da Charlotte Perriand la renderanno un’icona per il mondo del design, fino a oggi, con gli abitanti originari affiancati da borghesia intellettuale, e Chanel che la sceglie come location per le sue sfilate.
Altra icona brutalista al centro di un dibattito infuocato è stata questo complesso di social housing dove i due architetti del Team X avevano sperimentato il loro concetto di “street in the sky”, un sistema di circolazione in altezza su cui si attestavano appartamenti e duplex in modo da creare un carattere urbano dentro l’edificio. Un senso di comunità si era creato, ma i molteplici punti ciechi e il degrado dei materiali hanno presto avuto la meglio, portando, assieme ad un piano di rigenerazione approvato nel 2012, a una demolizione completata nel 2025. La mobilitazione della comunità architettonica però è stata enorme: parti dell’edificio sono conservate al Victoria&Albert, e sono state esposte alla Biennale di Venezia nel 2018.
Il complesso lineare da 1km di lunghezza per abitazioni popolari, progettato negli anni ’70 applicando al sud-ovest romano le soluzioni dell’utopia megastrutturale, attraversa difficoltà fin da prima del suo completamento, tra abusivismo insediativo e mancanza di servizi, diventando simbolo del disagio delle periferie italiane. “Si realizza trionfalmente come soglia o limite della periferia romana, senza alcuna certezza di poterne realmente condizionare gli sviluppi”, scrive su Domus lo storico Manfredo Tafuri nel 1980; svariati appelli alla demolizione si susseguono; un doppio progetto di rigenerazione arriva poi dal 2015 a oggi
Chiamato “Lavatrici”, ma anche definito “ecomostro”, con la tipica facilità con cui si applicano etichette poco risolutive, il complesso di edilizia sociale progettato da Rizzo a cavallo di una collina nasce a inizio ’80 sull’onda della legge 167 che puntava a dare casa alle masse operaie nelle città industriali. Lo sfavore della cittadinanza – assieme alle ipotesi di demolizione – gli arriva per i classici motivi di isolamento e mancanza di servizi, ma anche dall’impossibilità di confondersi col contesto, adagiato com’è sul pendio sopra l’autostrada, coi moduli in calcestruzzo della sua matrice megastrutturale in bella vista. In realtà proprio questa posizione dà alle unità abitative una qualità di luce e di panorama del tutto inedita.
Chiamato “Lavatrici”, ma anche definito “ecomostro”, con la tipica facilità con cui si applicano etichette poco risolutive, il complesso di edilizia sociale progettato da Rizzo a cavallo di una collina nasce a inizio ’80 sull’onda della legge 167 che puntava a dare casa alle masse operaie nelle città industriali. Lo sfavore della cittadinanza – assieme alle ipotesi di demolizione – gli arriva per i classici motivi di isolamento e mancanza di servizi, ma anche dall’impossibilità di confondersi col contesto, adagiato com’è sul pendio sopra l’autostrada, coi moduli in calcestruzzo della sua matrice megastrutturale in bella vista. In realtà proprio questa posizione dà alle unità abitative una qualità di luce e di panorama del tutto inedita.
Tanto questo cubico e sovradecorato edificio per gli uffici comunali quanto il suo progettista sono due icone del postmoderno. Il primo dei due però, presto un simbolo della città con la sua statua azzurra della dea Portlandia, diventa anche oggetto di forti critiche, anche per i problemi costruttivi da budget, e per il buio a cui le piccole finestre costringono gli interni. Minacce di demolizione anche qui nel 2014, attivazione dello stesso Graves in difesa dell’edificio: ad oggi è stato solo ristrutturato.
Esempio più celebre di come il postmoderno sia in grado di mettere d’accordo tradizionalisti e modernisti nell’attaccarlo, l’estensione della National Gallery che ospita le collezioni rinascimentali ha una vita controversa fin da prima ancora di nascere. Spazio di parcheggio in buco da bombardamenti per tutto il dopoguerra, un primo progetto High Tech del 1984 viene affondato dopo gli attacchi di niente meno che l’allora principe Carlo, e un secondo concorso viene vinto da Venturi e Scott Brown, con un pastiche di riferimenti storici e di contesto, salti di scala e inserti al limite del pop che fin dal primo minuto si porta dietro un biasimo collettivo come opera “fuori posto” in quel contesto che invece vorrebbe commentare.
Tappa del tour standard di chiunque – in possesso di una laurea in architettura o simili – si trovi la prima volta a Berlino, il grande complesso progettato dal 1981 e completato sei anni dopo voleva dare un ruolo fortissimo all’architettura – raccontava Rossi anche su Domus – nel ristabilire il valore di continuità urbana della Friedrichsstadt berlinese, devastata dalla guerra e dalla non-ricostruzione nei decenni del Muro. Un’architettura densissima di teoria come tutta la produzione rossiana specialmente dei primi 20 anni, che così come si posiziona sulla strada colla sua gigante colonna bianca d’angolo, si posiziona anche in un dibattito – quello sulla critica al Moderno – forse più ascoltato dagli architetti che non da chi – esterno alla disciplina – si trova da essi portato in visita ad un blocco lineare in mattoni, ancora piuttosto isolato tra vuoti dove la ricostruzione non sembra mai essere arrivata.