High-tech

A partire dagli anni ’70, un gruppo di progettisti vicini alle neo-avanguardie rivoluziona il rapporto tra l’interno architettonico, il suo involucro e le sue componenti tecnologiche. 

Foster Associates, Sainsbury Centre for Visual Arts, Norwich, 1974-1978. Foto © Ken Kirkwood. Da Domus 592, marzo 1979

L’high-tech acquista una propria riconoscibilità come corrente architettonica negli anni ’70, conosce il suo apogeo nel decennio successivo, e infine si declina in diverse varianti fino ai giorni nostri.

Un edificio, in particolare, riesce a catalizzare l’interesse della critica e del grande pubblico sul fenomeno high-tech nascente: il Centre Pompidou di Parigi, realizzato tra il 1971 e il 1977 da Renzo Piano (1937) e Richard Rogers (1933), con la collaborazione di Gianfranco Franchini (1938-2009), vincitori di un concorso internazionale. Il progetto del trio italo-inglese non è il più precoce esempio di architettura high-tech, e l’inquadramento di questo episodio eccezionale all’interno di un’unica cornice storiografica è certamente riduttivo. D’altra parte, è pur vero che il Centre Pompidou adotta e porta alle estreme conseguenze almeno due delle soluzioni più comunemente associate all’high-tech

Il centro d’arte contemporanea è concepito come un open space, i cui interni sono piattaforme liberate da qualsiasi accidente e disponibili ad infinite forme di appropriazione. Parallelamente, tutti gli elementi impiantistici e strutturali sono trasferiti sulle facciate e lasciati interamente a vista. Così, sull’involucro dell’edificio si struttura un linguaggio architettonico i cui vocaboli sono travi e controventi, tubature e camini, scale mobili e ascensori. Piano, Rogers e Franchini attingono a piene mani dall’immaginario e dalle soluzioni proposte dalle neo avanguardie degli anni ’60. Archigram, Archizoom e Superstudio, Richard Buckminster Fuller e Cedric Price, Frei Otto e Günther Behnisch, tra gli altri, sono i riferimenti che gli autori del Centre Pompidou condividono con gli altri protagonisti della corrente high-tech.

Quest’ultima si afferma in un primo momento soprattutto in Gran Bretagna, ad opera di un gruppo di architetti nati negli anni ’30: Nicholas Grimshaw (1939), Michael Hopkins (1935), ma soprattutto Norman Foster (1935) e il già citato Rogers. Dopo un’iniziale collaborazione all’interno del Team 4, di cui fanno parte anche le mogli Wendy Cheesman (1937-1989) e Su Brumwell (1939), i due aprono i rispettivi studi professionali e proseguono le proprie ricerche, indipendenti seppur fortemente connesse, ed entrambe circoscrivibili nell’ambito dell’architettura high-tech.

La carriera di Foster si apre con alcuni edifici decisamente radicali, come il Willis Faber & Dumas headquarters di Ipswich (1970-1975) e il Sainsbury Centre for Visual Arts di Norwich (1974-1978), che anticipano il rapporto tra un interno ininterrotto ed un involucro tecnologico ed attrezzato, che sarà enfatizzato dal Centre Pompidou. Il suo linguaggio high-tech raggiunge il massimo grado di espressività negli anni ’80, in edifici come la Hong Kong & Shanghai Bank di Hong Kong (1979-1986) e il Centro di distribuzione Renault di Swindon (1982-1983), quest’ultimo un tipico e fortunato esempio di tensostruttura high-tech. Dalla fine degli anni ’90, Foster si orienta da un lato verso una notevole semplificazione formale, che manifesta una preoccupazione prima sostanzialmente marginale per l’architettura high-tech, ossia il rapporto con il contesto. Nel caso di Le Carré d’Art di Nîmes (1984-1993), ad esempio, la composizione astratta e depurata del volume architettonico è funzionale a stabilire un dialogo con la vicina, classica Maison Carré. In tutt’altra direzione si rivolgono opere come la Swiss Re Tower di Londra (1997-2004) e la sede del London City Hall (1999-2002), che testimoniano di un rinnovato interesse per un’architettura d’ispirazione organica.

Pur nelle sue evoluzioni, il percorso Rogers resta più evidentemente rappresentativo del bowellism (dall’inglese bowels, viscere), termine coniato originariamente da Michael Webb di Archigram nel 1967. Se nella casa che costruisce per i propri genitori a Wimbledon (1969) sono a vista solo le travi reticolari dipinte di giallo sgargiante, è nel Centre Pompidou e nel Lloyd’s Building di Londra (1978-1986), dichiarata rilettura contemporanea del Crystal Palace di Joseph Paxton, che la spettacolarizzazione delle interiora tecniche raggiunge la sua espressione più compiuta. Meno estremizzati, ma coerenti con questa ricerca, sono i progetti di Rogers dei decenni successivi, come il Tribunale per i Diritti Umani di Strasburgo (1989-1994) e il Channel 4 headquarters a Londra (1990-1994), il cui involucro riconquista solo parzialmente la propria continuità e solidità.

In parallelo alle carriere dei suoi due numi tutelari, l’high-tech resiste fino ad oggi come una corrente particolarmente vivace e prolifica dell’architettura. Nelle parole di Luigi Prestinenza Puglisi: “l’high-tech continua in questi anni la propria opera di diffusione, ma articolandosi secondo declinazioni tra loro molto diverse, che vanno da quella neo-organica di Santiago Calatrava a quella neo-umanista di Renzo Piano a quella più giocosa di William Alsop”. Nessuno di questi progettisti rientra pienamente nella definizione di high-tech, ma tutti ne proseguono la riflessione sui legami (anche formali) tra architettura e tecnologia.

È anche in virtù della sua disponibilità ad interpretazioni potenzialmente infinite che l’high-tech si è imposto come lo stile (prima ancora che il movimento) per eccellenza dell’architettura globale e corporate. Le sue rielaborazioni, e i relativi epiteti, si moltiplicano per reagire alle tematiche in evoluzione del mondo del progetto: soft-tech ed eco-tech, per esempio, alludono alla volontà di confrontarsi con i temi della sostenibilità e del risparmio energetico.

Per il suo sostanziale eclettismo, che si traduce anche nella notevole incostanza qualitativa delle sue espressioni, la corrente high-tech può essere considerata intrinsecamente postmoderna. Come spiega Federico Ferrari: “Il citazionismo estetizzante ci permette di definire l’high-tech un fenomeno pienamente postmoderno. Viene spesso indicato, come cifra distintiva del postmodernismo, il recupero di linguaggi desunti dal passato, combinati disinvoltamente e ironicamente. Sarebbe tuttavia più corretto adottare la definizione di Charles Jencks, che parla piuttosto di ‘eclettismo radicale’. In questo senso l’high-tech ne costituisce solo una delle tante possibili varianti”.

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