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“Let there be no end to experimentation”: Aric Chen è il nuovo direttore della fondazione di Zaha Hadid

Architetto mancato, antropologo per vocazione, curatore per scelta radicale: Aric Chen approda alla Zaha Hadid Foundation dopo aver trasformato il Nieuwe Instituut, con una sola regola – sperimentare, sempre. L'abbiamo incontrato.

Da luglio 2025, Aric Chen sarà il nuovo direttore della Zaha Hadid Foundation con sede a Londra. A Rotterdam dal 2021, lascia il Nieuwe Instituut dopo quattro anni di grande attività in cui ha saputo ripensare le fondamenta del “design institution” olandese. E se c’è un tratto che accompagna tutta la sua traiettoria - da Hong Kong a Miami, da Pechino a Parigi - è questa capacità di non mettersi mai comodo, di far sentire ogni incarico come un laboratorio temporaneo e necessario in grado di saper guardare oltre e in modo diverso. Chen è uno di quegli studiosi–curatori che non vogliono lasciare un segno, ma produrre un vero e proprio sistema operativo longevo e sostenibile, che possibilmente altri siano in grando di portare avanti. Ama sovvertire le fondamenta in modo morbido e si, costruttivo.

Curare mostra per lui equivale a guardare il mondo con occhio nuovi, e “ha lo stesso fascino della scrittura. Ti costringe a uscire, vedere e imparare il più possibile, a riflettere e poi a stabilire un dialogo sulle tue conclusioni o osservazioni con qualcuno diverso da te stesso – il tuo pubblico, per esempio. Ma con la curatela, riporti letteralmente la dimensione spaziale e oggettuale nella narrazione”, sottolinea.


Inizialmente Aric Chen ha studiato sia architettura che antropologia (prima in California alla Berkeley, poi alla Parsons/Cooper-Hewitt di New York) due discipline che dicono molto su come viviamo oggi e come e cosa costruiamo. Ma poi l’interesse per il design. “Non me ne rendevo conto allora”, racconta, “ma probabilmente il mio percorso – architettura, antropologia, storia del design – rifletteva la voglia di capire il mondo che ci siamo costruiti intorno, non solo nei suoi spazi e oggetti, ma anche nei legami sociali e nei codici culturali che li intrecciano”. Una dichiarazione d’intenti che è anche una forma di etica e estetica operativa: Chen scrive, osserva, cura come chi smonta un orologio non per nostalgia del meccanismo, ma per trasformarne gli ingranaggi in un dispositivo del tutto nuovo. Guarda sempre più in là, sia che si tratti di una mostra come quella di IM Pei: Life is Architecture (2024-25) at M+ di Hong Kong o di Arata Isozaki alla Power Station of Art, Shanghai (2023), sia che si tratti di collectible design come la fiera Design Miami, la Tongji University di Shanghai, un festival quale Beijing Design Week o di un’istituzione come quella che lascia in questi giorni.

Ora, si appresta a lavorare per la prima volta all’interno di una fondazione. “Zaha Hadid ci ha lasciato un’eredità enorme. Non solo come architetto, ma come figura. Ha superato discipline, confini, generi. La fondazione è un atto di generosità per continuare a far vivere questo suo spirito”. Chen aggiunge: “Ho conosciuto Zaha solo fugacemente, ma voglio approfondire il suo insegnamento e la sua pedagogia, che credo siano ancora poco esplorati. Come disse lei stessa a Hans Ulrich Obrist: Let there be no end to experimentation”. Ha il sapore della sfida e le sfide sono sempre esilaranti per il curatore nato a Chicago, di origine taiwanese.

Serve un coinvolgimento diretto: riconoscere che, occupando uno ‘spazio terzo’ al di fuori del governo e del mercato, le istituzioni culturali sono in una posizione unica per assumersi dei rischi. Possono diventare luoghi di sperimentazione al servizio della società.

Aric Chen

E Chen prende sul serio il concetto di sperimentazione. Ma lo fa con la disinvoltura di chi non cerca la provocazione, bensì l’efficacia. In questo è diverso da molti suoi colleghi – meno didascalico, meno narratore dallo sguardo unico, più coreografo di complessità, pronto all’ascolto. Gli interessa non solo ciò che accade ma come accade: “Mi attirano gli spazi in-between, perché è lì che succedono le cose importanti. Sono spazi di frizione, intreccio, confronto. È lì che si impara a navigare nella complessità”.

Aric Chen ha lavorato in contesti diversi – Asia, Europa, America – intervenendo non solo sui contenuti espositivi, ma anche sui modelli istituzionali che li sostengono. “L’idea dell’istituzione culturale è in circolazione da così tanto tempo che ormai sembra superata”, afferma. E aggiunge: “Molte istituzioni sono lente nel cambiare, e diffidenti verso idee che si discutono da talmente tanto tempo da non poter più essere considerate davvero rischiose.”


Con una lucidità che non rinuncia mai al pragmatismo, Aric Chen non teme di criticare un sistema che spesso si accontenta di porre domande invece che agire. “Non ci mancano le idee. Serve un coinvolgimento diretto: riconoscere che, occupando uno ‘spazio terzo’ al di fuori del governo e del mercato, le istituzioni culturali sono in una posizione unica per assumersi dei rischi. Possono diventare luoghi di sperimentazione al servizio della società, attraverso quello che io chiamo speculazioni attuate.” Durante il suo mandato a Rotterdam Chen ha fatto proprio questo, trasformare il museo in uno strumento di intervento reale, del reale.

Ora, con la Zaha Hadid Foundation, si apre un nuovo banco di prova, meno legato alla programmazione pubblica, più vicino all’idea di una piattaforma che continua a produrre ricerca e sperimentazione. Non un archivio, ma un acceleratore. E’ abituato a non procede per enunciati, ma per processi. La sua forza non sta nel proporre un modello alternativo, ma nel mettere continuamente in discussione quello esistente. Lavora sui margini, perché è lì che i modelli iniziano a cedere e diventano negoziabili. È in quel limbo tra contenuto e struttura, tra ricerca e azione, che la curatela diventa infrastruttura culturale. E se le istituzioni – che ovviamente sono fatte di persone - riescono a cambiare, è spesso perché qualcuno come lui le attraversa con lucidità e un’irrequietezza critica che ne interrompe l’autocompiacimento. Ecco perché Aric Chen è il migliore curatore là fuori.

 

Zaha Hadid sulla copertina di Domus 650, aprile 1984

Immagine di apertura: Aric Chen. Courtesy Urban Future

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