La guida di Domus a Pechino

Dagli hutong alle danwei, dalle architetture-icona ai più recenti sentieri di rigenerazione urbana, un itinerario attraverso gli edifici simbolo di una città al tempo stesso antichissima e iper-contemporanea.

di Gerardo Semprebon

Si dice che per vedere la Cina degli ultimi millenni si debba andare a Xi’an, “il paradiso dell’ovest”, per vedere quella degli ultimi secoli, a Pechino, “la capitale del nord”, e per vedere quella degli ultimi decenni occorra invece andare a Shanghai, la perla “sul mare”. Non è un caso se i principali monumenti di Pechino risalgono proprio alle ultime due dinastie regnanti, i Ming e i Qing. Infatti, Pechino non fa eccezione alla maggior parte dei siti storici cinesi, continuamente riscritti nelle forme insediative, tanto nei quartieri residenziali quanto nei palazzi imperiali. Ad esempio, la Pechino descritta da Marco Polo, costruita durante la Dinastia Yuan non esiste più, demolita dall’esercito della vincitrice Dinastia Ming.

Molteplici eventi hanno continuato a riscrivere la capitale, dalle Guerre dell’oppio di metà XIX secolo, alla penetrazione occidentale nel tessuto economico e sociale della Cina, alla graduale dissoluzione dell’impero e al difficile ingresso nella modernità raccontati ne L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci. Con l’alba della Repubblica Popolare Cinese, poi, si importano modelli urbani sovietici, che trovano a Pechino, come in molte altre città cinesi, una delle espressioni più simboliche nella costruzione di innumerevoli danwei, unità lavoro – oggi considerate patrimonio storico e spesso recuperate o rigenerate – che racchiudono spazi domestici, produttivi e sociali, nello stato socialista che vede la città sostanzialmente come un centro di produzione. 

Con l’ascesa di Deng alla presidenza, negli anni ’80 la Cina si apre rapidamente agli investimenti esteri e al mercato globale e diverse ondate di urbanizzazione trasformano i confini urbani delle città. A Pechino l’espansione è concentrica, come testimoniano i diversi anelli infrastrutturali che ancora oggi rappresentano un fondamentale strumento per orientarsi. In parallelo alle grandi quantità costruite, anche a Pechino, città più resistente ai cambiamenti rispetto a Shanghai o Guangzhou, si manifesta una spinta verso la spettacolarizzazione di alcune trasformazioni urbane, culminanti nelle architetture-icona degli anni 2000 come il Teatro Nazionale, lo stadio olimpico, la Cctv Tower, o il Linked Hybrid, mirate a ridefinire l’immagine e la narrazione della Cina contemporanea, in risposta prima ai mercati globali e poi all’arrivo delle Olimpiadi del 2008.

Foto Zhu Difeng

Le due Olimpiadi che Pechino ha ospitato offrono due chiavi di lettura allo sviluppo urbano molto diverse. Pur in una grande complessità di processi, si può sostenere che le Olimpiadi del 2008 vogliono dimostrare l’adesione alle dinamiche globalizzanti attraverso la teatralizzazione, mentre la Pechino delle Olimpiadi invernali del 2022, che, con le dovute eccezioni – vedasi il distretto finanziario di Chaoyang – non è così diversa da quella di 8 anni prima – perché si è passati a operazioni di rigenerazione urbana e adattamento dei manufatti esistenti a usi contemporanei. Ci basti ricordare le immagini televisive di ciminiere e torri di raffreddamento come sfondo dei trampolini del salto con gli sci allestiti all’interno dell’ex sito metallurgico di Shougang.

Questa nuova postura è certamente l’esito di un rinnovato sguardo verso la città costruita e le sue forme, che sono progressivamente riconosciute come testimonianze storiche. Ma forse deriva anche da una serie di appelli provenienti dalla leadership a cessare la costruzione di “edifici strani” –qualunque cosa questo attributo voglia dire – e curiosamente, è quasi sempre la sede della Cctv, progettata da Oma, ad essere assunta come bersaglio.

In attesa di scoprire come sarà il più grande spazio di lettura al mondo nella nuova biblioteca disegnata da Snøhetta, attesa per il 2024, nella Pechino contemporanea identifichiamo le forti tendenze della rigenerazione urbana – in aree residenziali, come ad esempio i tradizionali hutong, e nei riusi adattivi di ex comparti industriali – e di una grande vitalità negli spazi pubblici e nei servizi connessi. Si rilegge infatti un’idea di spazio pubblico, passando dalla storica segregazione degli isolati in case a corte e unità lavoro recintate, a strategie di riattivazione che favoriscono nuove interazioni tra residenti, lavoratori e passanti.

Abbiamo selezionato un piccolo panorama di architetture contemporanee che oggi ci danno la cifra di tutta questa stratificazione storica e culturale, a fissare un’istantanea della Pechino odierna, indubbiamente destinata ad aggiornarsi nei prossimi anni.


Grande Teatro Nazionale

Paul Andreu, 2008

Nato da un concorso del 1998, l’Opera di Paul Andreu ha alimentato accesi dibattiti sul rapporto tra storia e contemporaneità, segnando un punto di svolta fondamentale nello sviluppo della capitale. Quando nel 2008 l’edificio vede la luce, l’enorme cupola ellissoidale non è la prima icona moderna a depositarsi sul basso tessuto storico di Pechino, ma, data la sua vicinanza a Piazza Tienanmen, è sicuramente quella che scuote di più i nostalgici. Da allora i bagliori dei tetti dorati della Città Proibita si confrontano quotidianamente con il vetro e i montanti in titanio del suo involucro, effetto amplificato dai riflessi sulle acque della vasca artificiale che lo circonda.


Sieeb, Sino-Italian Ecological and Energy Efficient Building

Mario Cucinella Architects, 2006

Il Centro sino-italiano di istruzione, formazione e ricerca per la protezione dell’ambiente e la conservazione dell’energia è un edificio che mette in campo strategie di progetto, attive e passive, e di attenzione costruttiva, finalizzate al contenimento dei consumi energetici. Portato a compimento nel 2006 all’interno del campus della Tsinghua University, l’edificio trae ispirazione dal metabolismo vegetale: le schermature fotovoltaiche alludono alla fotosintesi operata dalle foglie. Chiuso a nord e aperto a sud, l’ingresso della luce naturale è regolato da appositi sensori a seconda delle specifiche necessità di ogni ambiente.


Bird’s Nest

Herzog & De Meuron, 2008

Sicuramente il simbolo più noto della Pechino olimpica è lo stadio nazionale, inaugurato nel 2008. Sono 24 gli elementi reticolari, disposti a intervalli regolari, che sostengono la struttura. Ma l’aspetto principale di questo edificio è sicuramente l’involucro forato che avvolge il volume. Questa sorta di guscio permeabile a luce e aria è realizzata con una fitta trama di elementi tubolari in acciaio prefabbricati e assemblati sul posto che crea un gap rispetto alle gradinate. È proprio questo spazio osmotico tra area di gioco e città il tratto principale di questa architettura, che le è valso il soprannome di Nido d’uccello.

Di fianco al Bird’s Nest si trova il National Acquatics Center, lo stadio dell’acqua. L’edificio firmato dallo studio australiano Ptw Architects poteva ospitare fino a 18.000 persone durante le olimpiadi del 2008. Nel post-evento la capienza è stata ridotta a 6.000 e la struttura adattata per ospitare le gare di curling. Il rivestimento è realizzato in etfe, etilene tetrafluoroetilene, un polimero parzialmente fluorato leggero, resistente e con interessanti proprietà isolanti, posato secondo una struttura geometrica che enfatizza l’effetto tridimensionale delle bolle d’acqua a cui intende alludere.


Cctv Tower

Oma, 2012

Sebbene i 234 metri della sede della China Central Television la annoverino nella categoria del grattacielo, è difficile utilizzare il termine per questo enorme loop tridimensionale. E in effetti, la difficoltà a cogliere le reali dimensioni di questo super oggetto, una delle icone della Pechino olimpica, moltiplica l’effetto monumentale che assume nell’esperienza urbana. Effetto negli anni smorzato dal continuo aggiungersi di torri nel distretto di Chaoyang. Grazie al suo impressionante sbalzo, incarna una delle più audaci sfide ingegneristiche della contemporaneità. Amata e odiata, scatenatrice di acuti dibattiti, la Cctv tower è molto più di un gioco formale: è un simbolo partorito da enormi forze economiche e politiche che si offre a molteplici piani di lettura.

Uno degli episodi più rilevanti nati in seno al fervore preolimpico è sicuramente questo isolato completato nel 2009. Linked Hybrid non è solo uno dei primi complessi ad uso misto nel cuore di Pechino, ma è anche un’idea innovativa di città che sovverte e riarticola la mixitè funzionale in una configurazione tridimensionale. Oltre a 750 appartamenti, il programma include attività commerciali e ludiche che attraggono utenti non necessariamente residenti nell’isolato, determinando un grado di porosità e interazione pubblica fino ad allora sconosciuta nella città cinese. I percorsi si sdoppiano, aggiungendo ai vialetti che disegnano lo spazio aperto un sistema di passaggi sospesi, una rivisitazione delle “streets in the sky” brutaliste, che creano luoghi di incontro e distribuiscono spazi commerciali, espositivi e per lo svago. I 660 pozzi geotermici che si sviluppano per 100 metri nel sottosuolo testimoniano un’attenzione alla sostenibilità decisamente pioneristica rispetto all’epoca in cui il complesso è stato concepito.


Galaxy e Wanjing Soho

Zaha Hadid Architects, 2012-2014

Gli Small Office/Home Office più famosi a Pechino sono quelli disegnati da Zaha Hadid, completati nel 2012, il Galaxi, e nel 2014, il Wanjing. Si tratta di complessi ad uso misto, prevalentemente uffici e funzioni complementari. In entrambi i casi i clusters di edifici sembrano originati dalla ricostruzione di una topografia naturale, slanciata nel più periferico Wanjing – la torre più alta tocca i 200 metri – e concava nel più centrale Galaxi. I volumi sono caratterizzati da forme arrotondate che sembrano emergere da un suolo inspessito e infrastrutturato. La teatralità di queste grandi ambientazioni urbane è accentuata da una marcata partitura orizzontale di balconate, marcapiani, e superfici vetrate.


Chaoyang Plaza

Mad Architects, 2017

Chaoyang Plaza è una delle prime applicazioni del manifesto di Ma Yansong per una Shanshui City, un’idea di città che recupera la spiritualità e gli elementi tipici paesaggismo pittorico tradizionale cinese. I minuti volumi al suolo che simboleggiano dei massi e le due torri che si riflettono nelle acque del lago vicino, dovrebbero evocare un paesaggio classico. Non è solo un’operazione nostalgia quella di Mad, ma anche un appello a ritrovare un canone estetico ed ecologico che si è perso nella città contemporanea cinese. Il ricorso alle forme arrotondate riprende alcuni temi apparsi anche nei Soho di Hadid, da cui ci si allontana attraverso cromie scure e partiture verticali.


Baiziwan Social Housing

Mad Architects, 2021

Il primo complesso di social housing di Mad vede la luce nel 2021, come espressione di un percorso di ricerca nato nel 2014 che mirava a scardinare la logica delle gated community residenziali. In effetti, mentre gli alloggi realizzati con tecniche di prefabbricazione sembrano rileggere alcuni temi dell’existenzminimum, la disposizione degli edifici, 12 organizzati su 6 isolati, mette in evidenza un’idea dello spazio collettivo tra l’abitazione e la città alternativa al canone residenziale cinese. I flussi sono quindi organizzati su livelli diversi e garantiscono una grande permeabilità che trova negli spazi disegnati per usi condivisi i punti salienti.

Inaugurato nel 2019, il nuovo terminal è stato concepito per alleviare la congestione dell’altro aeroporto di Pechino. Una volta che entrerà a pieno regime, sarà in grado di far transitare fino a cento milioni di passeggeri all’anno. I flussi sono catalizzati nello spazio centrale della struttura: una grande hall che rappresenta il cuore del terminal e rievoca l’elemento della corte come cardine delle case tradizionali di Pechino. Questa configurazione, di concerto con una serie di automazioni legate alle fasi di imbarco, riducono molto i tempi di percorrenza per raggiungere i gates. Le acque piovane, fino a 2,8 milioni di metri cubi, sono raccolte e purificate prima di essere restituite a bacini idrici pensati per mitigare isole di calore e possibili inondazioni.


798 art district

Il 798 art district deve il suo nome a una delle fabbriche statali costruite negli anni ’50. In seguito a un processo di dismissione, a partire dal 2001 gli spazi vuoti sono stati gradualmente occupati da artisti che vi hanno stabilito atelier e spazi espositivi. Oggi, i capannoni ospitano più di cento attività culturali e creative, tra cui studi di progettazione, case editrici, studi di registrazione, fashion designer e chi più ne ha ne metta, all’interno di un chilometro quadrato post-industriale. Nel 2003, il Time Magazine ha inserito il 798 art district tra i 22 luoghi di interesse più famosi al mondo.

Nel 2022 Neri&Hu completano il riuso adattivo di un ex-magazzino trasformato in retail e concept store per Lao Ding Feng, noto brand di pasticceria che ha puntato sulla rigenerazione post-industriale per dotarsi di una nuova immagine aziendale. Il capannone in mattoni con tetto sorretto da capriate metalliche, un tempo laboratorio di tessuti, è stato conservato ove possibile e trasformato con innesti in calcestruzzo che riorganizzano un programma funzionale complesso. Sono proprio gli spazi tra vecchia e nuova struttura a caricarsi di tensione, vuoi per le audaci proporzioni, con continue bucature e tagli di luce, vuoi per gli accostamenti materici, dove il calcestruzzo bocciardato esalta la plasticità dei nuovi volumi e il contrasto con le murature in mattoni esistenti.


Bagni pubblici Amoeba

People’s Architecture Office, 2021

I bagni pubblici disegnati da People Architecture Office nel 2021 per il Manshan Park mostrano una possibile via per il riscatto di una categoria architettonica troppo spesso banalizzata da cliché formali o nascosta tra le pieghe di edifici destinati ad usi più aulici. Mentre la loro forma suggerisce un nuovo ruolo urbano per questo tipo di spazi di servizio, la loro organizzazione rappresenta un inno all’inclusività sociale e di genere.


Hutong Filter e Micro-hostel, Hutong

ZAI Studio e ZAO/standardarchitecture, 2021-2016

Formati dall’accostamento di molte case a corte, gli hutong, letteralmente “vicoli”, costituiscono la matrice morfologica dell’antico tessuto costruito e rappresentano il tradizionale modo di abitare lo spazio domestico di una Pechino che ormai non esiste più. Nel tempo, diverse aggiunte e superfetazioni ne hanno saturato gli spazi aperti, rendendo quasi irriconoscibile l’impianto a corte; mentre in molti altri casi, il valore dei suoli e la necessità di ottenere più alloggi hanno indotto gli operatori del settore edilizio a sostituirli con brani di città più densamente abitati.
Da una ventina d’anni, gli hutong sono diventati laboratorio di sperimentazione progettuale per un’urbanità a bassa densità che ambisce a tradurre alcuni tratti identitari della Pechino tradizionale in architetture attente alle necessità contemporanee. Tra le esperienze più interessanti troviamo, a riflettere due atteggiamenti alternativi:

l’Hutong Filter dello studio ZAI, che propone una trasformazione centrifuga del cortile interno alla casa tradizionale (la demolizione selettiva di alcune parti di setto murario permette una smaterializzazione e filtra lo spazio senza più dividerlo nettamente); il Micro-hostel di ZAO/standardarchitecture, che invece lavora sulla forza centripeta del tipo a corte, dove l’aggiunta di minimi volumi in calcestruzzo conferisce un nuovo senso allo spazio, alla sua densità e alla sua consistenza materica.

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