Vivo in un vecchio traghetto norvegese ormeggiato nel porto di Copenaghen. È un’infrastruttura dismessa che trasportava automobili e passeggeri tra i fiordi della Norvegia. Il mio soggiorno è un loft aperto su entrambi i lati, che di solito bastava per quattro file di auto. Le pareti di acciaio grezzo, i boccaporti, le superfici continue ricurve sottocoperta sono altrettanti piccoli doni estetici ed empirici connessi al fatto che la mia casa non è mai stata progettata o costruita per essere tale. La sua radicale reinterpretazione ha dato a me e alla mia famiglia spazi ed esperienze diversi da quelli di ogni altra abitazione.
Bjarke Ingels sul riuso: “il futuro è già qui, solo che lo stiamo usando per qualcos'altro”
Bjarke Ingels, presentando il nuovo numero di Domus, racconta dal suo loft ricavato in un vecchio traghetto come il riciclo e la reinterpretazione non siano solo strategie sostenibili, ma possano diventare la vera risorsa dell’architettura del futuro.
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- Bjarke Ingels
- 02 ottobre 2025
Questo numero di ottobre è dedicato al materiale che nasce da processi di riciclo. Se l’Antropocene è l’Era in cui l’impatto umano sulla geologia mondiale è superiore al movimento delle placche tettoniche e alle eruzioni vulcaniche, allora il suo principale sedimento è il nostro ambiente costruito. In altre parole, la nostra principale risorsa materiale futura potrebbero essere i giacimenti del nostro passato. Nella prospettiva del libro di William McDonough Cradle to Cradle, se le risorse sono ciò che estraiamo dalla natura, le re-sources sono i materiali che ricaviamo dalle strutture dismesse e dai prodotti dell’ambiente artificiale.
Il ricorso di Wang Shu alla tecnica wapan nel Museo di Ningbo (2008) trasforma frammentidi mattoni e pietre in stratificazioni quasi geologiche di blocchi di recupero. HArquitectes riusa i frammenti di un edificio demolito facendone un aggregato per nuovi blocchi prefabbricati. La pietra calcarea riappare in forma di nuova terrazza simile a un torrone geologico. Le facciate di Lendager sembrano un patchwork di pacchetti di elementi dismessi, i megagiunti di cemento inframmezzati alla Frankenstein a pezze di mattoni fanno da kintsugi urbano, mettendo in risalto una disparata natura wabi-sabi come fresca estetica della rigenerazione.
Per Lacaton & Vassal, l’argomentazione ambientalista del riciclo è spesso una misera scusa escogitata per legittimare la violenza della demolizione. Avendo giurato di non demolire mai, hanno trasformato la loro prassi di valorizzazione in un obiettivo estetico. L’edificio esistente, per quanto grezzo o sgradito, reca in sé la patina delle vite passate combinata con una generosità data dal loro essere già in essere. In un’economia di mezzi limitati, gli spazi che non serve costruire sono gratuiti, e quindi possono essere più alti, più ampi e generosi di quelli di nuova costruzione, rispettosi degli standard.
Il futuro è già qui, solo che oggi lo stiamo usando per qualcos’altro.
Nel 1993, nel mio primo viaggio a Barcellona, la visita a La Fábrica di Ricardo Bofill mi aprì gli occhi sull’estetica della ridestinazione. I vecchi silos di calcestruzzo venivano reinventati ricordando i saloni dei palazzi. Lastre di marmo di Malaga inserite con precisione chirurgica coesistevano con calcestruzzo di bassa qualità e monconi di tondino sporgenti dal sofitto come stalattiti. La stazione madrilena di Atocha di Rafael Moneo accetta il dono della galleria ferroviaria dismessa e la trasforma in oasi urbana, come in un’Angkor Wat di strutture abbandonate invase dalla biosfera. La Grande moschea di Córdoba è una testimonianza della natura da collage di una sequela di adattamenti d’uso. In mezzo a una foresta di colonne moresche sorge una cattedrale cattolica, entrambe si fondono in una chimera di stile, cultura e religione. Perfino la Basilica di Santa Sofia di Istanbul fu progettata e costruita come basilica cristiana, prima di diventare un modello per le moschee di tutto il mondo.
Nessuna tipologia edilizia ha prodotto un repertorio mondiale di reinvenzione più maturo delle infrastrutture industriali di servizio. La Rust Belt, la “fascia della ruggine” della Ruhrgebiet tedesca, è cosparsa di impianti per il trattamento del carbone e acciaierie abbandonate. Gli altiforni dell’Emscher Park sono stati reinventati come fantasie ecologiche postindustriali. Le strutture di mattoni e acciaio alla Mies dello Zollverein sono rinate come polo culturale. Un gasometro si staglia all’orizzonte come una cattedrale della cultura contemporanea, le cui dimensioni monumentali non sarebbero mai state considerate per accogliere normali sculture o performance. La Tate Modern Turbine Hall (2000) non sarebbe mai esistita se non fosse per la reintepretazione dell’ex centrale elettrica come istituzione culturale. L’M/S Museet for Søfart di Elsinora (2013) sfrutta le maestose dimensioni di un bacino navale dismesso per allestire mostre, lasciando nel cuore del museo la banchina vuota come un gigantesco artefatto.
Le tecnologie si evolvono e l’economia cambia. Le auto senza conducente rendono obsolete le strutture dei parcheggi, mentre fabbriche e magazzini cambiano e migrano, aprendo alla reinterpretazione un enorme repertorio di edifici. Il divario tra i loro attributi esistenti e le nostre necessità attuali può trasformarsi negli anni a venire nel più ampio dei margini creativi di cui disponiamo per la nostra sperimentazione professionale.
In questo numero, Aaron Betsky discute di rifunzionalizzazione come alternativa a costruire ex novo, mentre Anders Lendager analizza le fonti dei nuovi materiali provenienti dall’ambiente costruito esistente. Olaf Grawert si fa apripista dell’estetica del “trovato” e del non finito, mentre Lacaton & Vassal mettono al bando la demolizione. Pihlmann Architects coltiva un’estetica dogmaticamente grezza da objet trouvé nel progetto per la Bikuben Foundation. Blaising Borchardt Studio dà un doloroso significato alle vecchie rotaie trasformate in materiali da costruzione in Les rails de la mémoire, il suo memoriale della Shoah. Maxence Grangeot riusa i detriti in un ciclopico calcestruzzo fatto di grandi frammenti di muri infranti. Con Ola Palermo, Oda Architecture reinventa la struttura di un parcheggio abbandonato attraverso un parco tridimensionale. Palma + Nula.Studio usa ingredienti triturati per colare i materiali della sua Fake Realness.
Nel portfolio c’è Marcel Raymaekers con il suo lavoro costante di una vita per il riuso di frammenti riciclati in un palazzo fatto di ritagli. Lo sgabello Staple di Kooij analizza la qualità geologica delle sfumature della plastica fuse in un nuovo materiale metamorfico. La seduta Bultan di Maximum ripropone, in un’estetica tubolare, le transenne per esterni, mentre Material Record e Yamaha esplorano e valorizzano il riciclo nell’estetica di dffusori acustici e chitarre.
L’artista Thomas Deininger, quando non disegna le copertine di Domus, fruga tra i rifiuti di spiagge e parchi per celebrare la natura con gli stessi rifiuti che ne minacciano l’esistenza. Thomas Dambo usa le macerie per dar corpo a creature mitologiche scandinave con la sua serie dei Troll. Michael Johansson usa la sua ossessione estetica per orchestrare gli scarti in astratte sinfonie cromatiche.
Luzinterruptus usa contenitori monodose di plastica in vetrate legate a piombo, trasformando edifici abbandonati in cattedrali dei rifiuti. Vhils, aka Alexandre Farto, incide maestosi murali su muri e marciapiedi, come uno scultore scava il marmo. Infine, Kathleen Ryan trasforma i rifiuti in tesoro con le sue smisurate nature morte di prodotti deperibili ingioiellati.
Sono tutti esempi di come il materiale del futuro sia già stato impiegato per qualcos’altro. Il nostro ruolo di architetti può evolversi da quello di ideatori a quello di curatori. Dalla creazione all’adattamento. Con 8 miliardi di abitanti oggi e 10 previsti per il 2050, pare ragionevole presumere che la maggior parte del nostro tessuto urbano esista già. Magari non sarà adatto allo stile di vita che desiderano, ma può soltanto essere com’è, perché questo è il punto a cui è arrivato chi è venuto prima di noi nel realizzare il mondo che sognava. Quindi, non abbiamo solo la possibilità, ma anche la responsabilità di garantire che il modo in cui gestiamo e manipoliamo il materiale che abbiamo ereditato rifletta quello in cui vorremmo vivere. Che sia smontando e ricostruendo le strutture che abbiamo ereditato, oppure reinterpretandole e riadattandole, l’argilla che abbiamo tra le mani sono i resti delle società che ci hanno preceduto.
Quando Lacaton & Vassal hanno riprogettato l’École d’architecture di Nantes, per liberarsi dalle funzioni e dalle proporzioni dell’edilizia tradizionale hanno immaginato una struttura industriale ereditata dal passato e reinterpretato il modo in cui potesse diventare una scuola: come trasformare un magazzino abbandonato o la struttura di un parcheggio in uno spazio pedagogico. Il rinnovamento immaginato è diventato la loro licenza creativa, la loro libertà architettonica. Il nostro vecchio spazio di lavoro di Copenaghen era una fabbrica di cappelli dismessa. Aveva soffitti alti 14 metri, campate enormi e superfici d’acciaio grezzo e calcestruzzo a vista. È diventato il nostro punto di riferimento per costruire da zero il nostro nuovo studio. Per essere in armonia con gli ambienti industriali preesistenti dovevamo pensare a come costruire spazi grezzi e generosi, di flagrante autenticità. In questo senso, adottare il riciclo e la reinvenzione tramite il riadattamento può non essere solo una responsabilità che dobbiamo assumerci per uscire dalle difficoltà: può essere la più grande e unica occasione di toglierci la camicia di forza delle convenzioni e di liberarci, per esplorare nuovi modi di organizzare la vita e il lavoro in ambienti preesistenti che sembrano inadatti a ciò che vogliamo farne.
Per parafrasare William Gibson: il futuro è già qui, solo che oggi lo stiamo usando per qualcos’altro.
Immagine di apertura: Photo © Gregori Civera