Ricardo Bofill e la continua trasformazione de La Fábrica

Ricavati da un ex cementificio degli anni Venti, la residenza e studio dell’architetto spagnolo sono una rovina ristrutturata. Dal 1973 continuano a trasformarsi e ad adattarsi alla vita che contengono, proteggendola e stimolandola.

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1055, marzo 2021

Un focolare sulle rovine

Raccontano che, alla domanda “Maestro, lei quando sa di aver terminato un libro?”, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges rispose: “Mai. A un certo punto, però, l’editore mi telefona e mi dice che bisogna mandarlo in stampa”. Sapere quando un artista considera finita un’opera è un mistero ed è una delle sfide più inquietanti da affrontare. Per questo, a volte, le opere restano per sempre incompiute, ma vive. La casa-studio di Ricardo Bofill è da annoverare in questa categoria.

Fu iniziata nel 1973 e oggi, quasi mezzo secolo dopo, continua a trasformarsi e ad adattarsi alla vita che contiene, proteggendola e stimolandola. “Il classicismo”, ha detto Bofill, “è incompletezza, assenza di soddisfazione. Nulla è completamente finito, anche laddove all’apparenza si può credere il contrario”. Questo progetto iconoclasta nacque un giorno in cui Bofill, uscendo da Barcellona, vide una vecchia fabbrica di cemento fumante. Si disse: “Trasformerò questa struttura obsoleta nella mia casa”.

Questo per lui significava, e significa ancora, uno spazio ambivalente dove abitare e lavorare, ma anche dove celebrare, meditare, esporre o giocare. Uno strambo microuniverso che, tutt’oggi, non si lascia catalogare in nessun genere architettonico esistente. No, non è una casa, ma è anche una casa. Il progetto è stato plasmato a suon di demolizioni: prima con dinamite e scavatrici, poi con pala e piccone, e con l’aggiunta finale di installazioni e ammennicoli. È uno spazio quasi scolpito più che progettato e, in qualità di scultura, ha mano a mano sottratto la parte in eccesso per cesellare aperture e cavità. Ci sono voluti tre anni per terminarlo, o meglio per poterlo occupare, perché in realtà, come abbiamo detto, non è mai finito. Continua a palpitare.

I silos sulla sinistra, alti 15 m, ospitano lo studio RBTA su quattro piani, collegati da una scala a chiocciola. Al centro della foto, sullo sfondo, s’intravede la residenza, che si sviluppa su tre piani e comprende tre sale da pranzo e tre camere da letto, oltre a una stanza per il fitness. Sulla destra, l’ingresso alla Cattedrale, lo spazio più grande dello studio, con soffitto a tutta altezza di 10 m, e alla reception, al piano terra. Foto Louis Carbonell

Il rifugio del nomade

Qui Bofill trasferì poi il suo rivoluzionario Taller de Arquitectura, che includeva nel proprio team scrittori, filosofi, sociologi e artisti, anticipando di molti decenni l’attuale concezione interdisciplinare di urbanistica e architettura. Proprio a fianco del suo studio, nello stesso complesso, in quella stessa epoca Bofill costruì l’edificio Walden 7, un audace condominio hippy, utopistico e comunitario. In una Spagna triste e chiusa, sotto la dittatura franchista, era un esperimento insolito; Bofill aveva bisogno di aria, nella sua Catalogna imbrigliata si sentiva periferico: “Ero molto giovane e avevo una gran voglia di cambiare il mondo. Cominciai a viaggiare e a costruire, e divenni un nomade”.

Da allora, ha vissuto in diverse città lasciando le sue tracce in altre 40 sparse in vari continenti. Questo spazio iniziatico, però, resta sempre il suo rifugio: “È il mio luogo, il mio punto di riferimento, è qui che riesco a vivere, che riesco a lavorare, dove inizio a pensare e a progettare”. Il complesso costruito a Sant Just Desvern, cittadina limitrofa a Barcellona, si sviluppa su circa 3.500 mq, è distribuito tra gli antichi silos del cementificio che, nel tempo, si sono intrecciati tra loro. È composto da La Fábrica, lo studio di architettura, dove attualmente lavora insieme ai figli Ricardo e Pablo e alla compagna, la designer Marta de Vilallonga, responsabile dei progetti d’interni.

C’è poi una zona multifunzionale, una grande navata dai tetti alti, chiamata Catedral. Infine, l’area residenziale privata, di circa 500 mq, con tre stanze, tre salotti, una Jacuzzi e un giardino coperto.

L’argomentazione di Tadao Ando secondo cui, nel momento in cui si inizia a progettare, si sferra una battaglia tra astratto e concreto, in questo progetto si esprime in forma paradossale.

È una zona che salvaguarda con cura la propria intimità e di cui si conoscono solo poche foto. I mobili sono disegnati dallo stesso Taller de Arquitectura, ma qua e là sono pescati da una selezionata lista di classici: sedie di Gaudí e Thonet, la poltrona di Eames, la lampada Frisbi di Achille Castiglioni o la Tizio di Richard Sapper. Tutto il complesso è circondato da giardini, cresciuti in modo sempre più spettacolare. Quello che era un blocco di cemento grigio e inquinante è diventato un frondoso frutteto mediterraneo, con palme, ulivi ed eucalipti. I muri si sono ricoperti di edera rampicante, che praticamente li nasconde. “Tutto è stato fatto con un’attitudine molto minimalista, molto semplice, utilizzando materiali poveri. Non mi piace l’ostentazione del lusso. Il lusso sta nel modo di vivere, nello spazio stesso, non nell’uso di materiali costosi. Le forme delle case tradizionali piccolo-borghesi non mi sono mai piaciute”.

L’ingresso alla reception e alla Cattedrale, che ospita una mostra permanente del lavoro di Bofill ed è usata per presentazioni e riunioni. Foto Marc Goodwin

Anticipazioni e rischio

In questo progetto confluiscono molti riferimenti. Da una parte, il Brutalismo, per il cemento armato e le dimensioni colossali. Dall’altra, il Purismo astratto, per le forme cilindriche o coniche. Ci sono scintille di Surrealismo, scale che non portano da nessuna parte, ma anche una certa aria di romanticismo, donata dalla patina del tempo. Ci sono finestre di ispirazione gotica; facciate classiche; interni minimalisti... Eppure, tutto conserva una schietta originalità. Non è una somma, è una sedimentazione o una sublimazione. Talvolta, il complesso è stato definito un convento laico, agli inizi più nudo e controculturale, con il passare del tempo più monacale, ma anche vibrante di attività.

Il progetto ha anticipato diverse tendenze: dai loft residenziali, con ampi spazi condivisi, al green design o vegetecture, ma anche quella del landscape office. Di fatto, per Bofill questa casa è “una rovina ristrutturata e rifatta, dove gli spazi diventano polivalenti”.

Ne apprezza perfino gli inconvenienti: “Il vantaggio di questo labirinto è che le persone non si incontrano. Ognuno può vivere la sua vita come gli pare”. Bofill si disinteressa del rapporto funzionale tra gli spazi: “È organizzata per spazi in base alle attività mentali più che in base alle funzionalità di una casa tradizionale. È creata per vivere stati d’animo differenti... La mia vita trascorre qui in forma continua, con pochissima differenza tra il lavoro e il tempo libero”.

La casa di Bofill è aperta, profusamente illuminata, è ricca di giardini, ma è anche una fortezza, un castello industriale, un bunker dove trovare riparo dall’esterno. “Qui gli interni sono spazi concepiti per meditare e concentrarsi. In questo senso, sono deliberatamente armoniosi e neutri, producendo una minima tensione nel comportamento umano. Pochi materiali e nessuna decorazione”. Alcune pareti sono state lasciate nude, a mostrare i mattoni poveri con le guarnizioni gocciolanti cemento, quel cemento che veniva prodotto proprio qui quando, all’inizio del XX secolo, la fabbrica Sansón era in attività.

Assonometria de La Fábrica

L’emozione vince sulla ragione

L’argomentazione di Tadao Ando secondo cui, nel momento in cui si inizia a progettare, si sferra una battaglia tra astratto e concreto, in questo progetto si esprime in forma paradossale. Un sogno assurdo, che può essere insieme reale ed etereo e, dunque, radicale e profondo, una sfida alle convenzioni.

“Le due cose che mi emozionano,” dice Bofill, “ sono la bellezza e poi l’intelligenza”. Lo dice programmaticamente, rimarcando l’ordine. Senza dubbio, in questo suo spazio l’emotività è più importante della praticità. La prima richiede talento e genio, la seconda solo analisi, per trovare soluzioni. A 81 anni compiuti, prosegue: “La mia vita è sempre fatta di progetti perché la professione dell’architetto ti porta a progettare il futuro, e questo incide sul tuo modo di pensare: la mia vita è un continuo progetto proteso in avanti, più che una storia del passato”. Poco tempo fa, qui hanno girato alcune scene della serie futurista Westworld della HBO. Le rovine rinascono ogni giorno.

Juli Capella (Barcellona, 1960), architetto e designer, è curatore di mostre e autore di libri. È stato direttore delle riviste De Diseño e ARDI, e presidente del FAD (Fomento de las Artes y el Diseño). È socio dello studio Capella Garcia Arquitectura.

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