La discoteca come sperimentazione di democrazia: l′evoluzione in 5 luoghi chiave

Andy Warhol una volta disse che lo Studio 54 era tanto una dittatura quanto una democrazia. Una recente mostra a Milano ha analizzato il ruolo della discoteca e dei suoi interni come terreno di negoziazione di diritti attraverso la storia.

1. B018, Beirut Beirut non è il primo luogo che viene in mente quando si pensa al clubbing. Eppure la capitale del Libano ha un legame storico con le discoteche. Nel 1980 Ettore Sottsass Jr. vi progettò il Disco 2000, un ambiente che permetteva alla popolazione autoctona di scappare, almeno attraverso la musica e gli interni decisamente europei, alla difficile situazione sociale del paese.  Analogamente, Najil Gebran a fine decennio, con la nazione martoriata da un sanguinoso conflitto intestino, inizia a selezionare musica da uno chalet sulla spiaggia: il B018. 

Foto: courtesy of B018

1. B018, Beirut Nel 1998 il club si sposta sul terreno di un ex accampamento per rifugiati armeni e curdi. Qui il cugino e architetto Bernard Khoury progetta un ambiente sotterraneo, che si apre come un sarcofago nella notte rivelando uno spazio simile a un bunker, dove i tavoli in mogano ricordano bare su cui sono collocati ritratti di musicisti martiri della libertà, rose e fori di proiettili. L’invito al locale un calcinaccio, ospitato all’interno di una custodia nera traforata: un oggetto pesante nel peso specifico e nel significato simbolico, in cui design e vicende socio-politiche di una nazione si sviluppano in simbiosi sotto la bandiera della musica e della libertà. 

Foto: B018, Laboratorio di Progettazione dell’Architettura degli Interni, Politecnico di Milano, Diorama, realizzato in carta Fedrigoni, 2023

2. Club Judd, Tokyo Lo status socio-politico di una nazione in un determinato periodo storico passa anche dal design. Il Giappone dei ‘60 è una paese in ascesa economica dopo la batosta della Seconda Guerra Mondiale. L’influenza della cultura Americana inizia, proprio in questi anni, a plasmare la nazione che verrà e anche le discoteche sono coinvolte in questo processo di cambiamento.  Il club si ispira, a partire dal nome, allo scultore statunitense Donald Judd di cui il proprietario del locale era grande estimatore.  Gli interni sono affidati a Shiro Kuramata, designer che a metà Sessanta incarna più di ogni altro il connubio tra avanguardia progettuale del Sol Levante e l’occidentalizzazione della nazione. In un ambiente sinuoso completamente rivestito in lastre di alluminio semi-lucido, la pista in lastre di marmo bianco fa da contraltare alla moquette in pelo nero su cui si posano sedute in plexiglass trasparente con cuscini gialli e blu. Ne consegue un ambiente che cattura l'effimero del divertimento e della rinascita giapponese post-bellica.

Foto: Domus 487, giugno 1970

3. New Afrika Shrine, Lagos A metà tra un luogo dal valore spirituale e politico, il New Afrika Shrine racchiude il lascito culturale di Fela Kuti al suo popolo. Nella discoteca inaugurata nel 2000 per volere dei figli del musicista Femi e Yeni Kuti la catarsi del processo collettivo è ricca di impegno sociale.  Il club nasce infatti con l’obiettivo di ridare vita allo Shrine, il locale che Kuti fondò nel 1972 durante la guerra civile nigeriana e delle cui controversie Kuti fu cantore. Proprio in quegli anni, lo Shrine offrì rifugio e lavoro a molti giovani, oltre a dedicarsi a iniziative in sostegno della sanità e dell’educazione che oggi continuano a ispirare l’operato del New Afrika Shrine.  

Foto: Carlotta Coppo. New Afrika Shrine, Laboratorio di Progettazione dell’Architettura degli Interni, Politecnico di Milano, Diorama, realizzato in carta Fedrigoni, 2023

4. Paradise Garage, New York Non è solo l’eccesso votato a trasgressione a fare del Paradise Garage uno dei più significativi archetipi di discoteche nella storia. Sulla sua pista, attiva a New York tra il 1978 e il 1987, si è consolidata la figura del DJ come sacerdote di un rito laico. Non a caso Bernard Fowler, cantante dei Peech Boys, il gruppo del locale in un’intervista con The Guardian ha definito il suo DJ Larry Levan, uno dei pionieri del mixing, come “un Messia. La gente guardava in alto verso la consolle e gridava il suo nome.” Qui si sono, soprattutto, negoziati importanti diritti civili per l’America del futuro. Il Garage, o come era anche noto Gay-rage, fu rifugio per la comunità LGBTQ+ ispanica e afroamericana in una New York che stava stava d’un tratto scoprendosi vulnerabile all’AIDS, tema su cui il club fu attivo sensibilizzatore. 

Foto: logo Paradise Garage

5. Bassiani, Tiblisi Benché di recente apertura (2014) il Bassiani si è da subito affermato come uno dei principali punti di riferimento per la Techno in Europa, venendo spesso accostato al celebre Berghain di Berlino. Eppure, il club Georgiano è molto di più. Nel logo, un elmo, si traccia il fil rouge suo e della nazione con la violenza militare.  Il Bassiani rappresenta da quasi un decennio un avamposto di militanza e resistenza in un paese dalla politica conservatrice, che più volte ha cercato di soffocare l’attività della discoteca, anche attraverso arresti sommari. Come nel 2014 quando, in seguito ad un raid antidroga, l’esercito aprì il fuoco dentro il locale. Episodio seguito nel 2019 dalla sparatoria di un civile. Eppure, proprio dal Bassiani che nel maggio 2018 è partito il rave che per due giorni ha tenuto banco davanti al Palazzo del Parlamento, ponendo davanti agli occhi dell’opinione pubblica internazionale il crescente movimento sociale di protesta che a Tiblisi è legato indissolubilmente al ballo. 

Foto: Bassiani

Murales di Keith Haring all'interno del Palladium, Ney York, 1985 Foto: Timothy Hursley, Garvey Simon Gallery

La discoteca è da sempre il luogo della ricerca effimera dell’edonismo. Nell’escapismo dalla cultura dominante da esse offerto, però, si è spesso celata la molla per profondi cambiamenti sociali. 

La rivalutazione sempre più crescente del valore culturale della discoteca, specialmente sotto il profilo architettonico e progettuale, tocca oggi anche il mondo accademico. Il tema è infatti stato al centro di “Discorivoluzione”, progetto di ricerca di 50 studenti del Laboratorio di Progettazione Interni del Politecnico di Milano e recentemente culminato in una mostra-evento in collaborazione con la storica realtà milanese di clubbing e eventi culturali Le Cannibale al PAC di Milano in occasione di MuseoCity.

L'installazione “Balliamo su tutti i dancefloor del mondo” al PAC di Milano in occasione di “Discorivoluzione”. Foto di Carlotta Coppo

“Mi piace pensare alle discoteche come territori non di conflitto, ma di negoziazione di diritti”, spiega Davide Fabio Colaci, docente di architettura e coordinatore della mostra. 

La negoziazione di cui parla Colaci sembra essere riassunta da Andy Warhol che, in riferimento allo Studio 54 di cui era avido frequentatore con la sua macchina fotografica, disse “Il segreto del successo dello Studio 54 è che è una dittatura alla porta e una democrazia in pista”.

La tensione delle sfide generazionali creano – come teorizzava già Leonardo Savioli nel suo corso inaugurato nel 1966 presso l’Università di Firenze – “spazi di coinvolgimento”, che si snodano tra arti visive, sedute di design (come quelle Gufram per il Piper Club di Torino e l’Altro Mondo di Rimini, entrambi progetti di Pietro Derossi e Giorgio Ceretti) e la ricerca di sinestesie che superano l’individuo arrivando a toccare la sfera politica. 

Haçienda, Manchester, 1994. Foto di Jon Shard

È, ancora una volta, Andy Warhol a sottolineare la discoteca come ring in cui si sfidano le dinamiche del presente in una locandina disegnata a mo’ di quelle degli incontri di pugilato per promuovere l’afterparty del settembre 1985 al Palladium di New York dell’inaugurazione della mostra sua e di Basquiat presso la Tony Shafrazi Gallery.

La discoteca emerge dunque come ecosistema del cambiamento. Ovvero come la realtà privilegiata in cui, in contesti spazio-temporali sempre diversi, si incarna lo zeitgeist. Eppure non sono, come si potrebbe pensare, solamente gli interni o i dischi suonati a raccontare le transizioni della nostra cultura, ma il dialogo scaturito dalle tensioni socio-politiche del più ampio contesto territoriale in collisione con dettagli degli outfit mostrati in pista, i progetti grafici dei flyer delle serate e le liriche delle canzoni.

In alcuni casi la discoteca si fa avamposto di resistenza di diritti politici e sessuali, come il Paradise’s Garage culla della comunità omosessuale ispanica della New York di fine anni ‘70, se non addirittura trampolino di escapismo laddove il tessuto sociale sta vivendo rivoluzioni, come nel caso del Disco 2000 progettato da Ettore Sottsass Jr. a Beirut con una pista che richiama quelle aeroportuali. Qui, i libanesi durante la guerra civile scoppiata nel 1975, potevano sentirsi come a Parigi, bevendo champagne annotava Sottsass, che non fu mai pagato per il progetto in seguito al dileguamento dei committenti.

In altri casi l’escapismo avviene sotto forma di catarsi, che la discoteca permette facendosi ora tempio (Tresor, Berlino), ora supermercato dell’edonismo e delle sostanze stupefacenti (Haçienda, Manchester). O, ancora, ambiente performativo, come il Cerebrum di New York che tra il 1968 e il 1969 pose le basi per il Living Theatre e l’esperienza degli Happening di artisti come Allan Kaprow.

“Il mondo delle discoteche è effimero. Basti pensare che l’archetipo della discoteca, ovvero lo Studio 54, tenne aperto per due soli anni," osserva Colaci per ribadire la transitorietà fisica, ma non socio-culturale, dei 18 club analizzati nella mostra.

Il van del Tresor alla Love Parade, Berlino, 1991. Foto di Oliver Wia, Tresor Records

La transitorietà è il fil rouge con il presente. Come riflette Marco Greco, co-fondatore di Le Cannibale assieme a Albert Hofer, “Oggi c’è una tendenza a individuare non più le mura della discoteca, ma quelle metaforiche di organizzazioni come punti di riferimento della comunità.”

Le dinamiche di consumo della musica sono cambiate in maniera sostanziale, specialmente nel dopo-Covid, ma secondo Le Cannibale lo spazio del clubbing rimane un palcoscenico dove sviluppare per primi e con naturalezza tematiche e battaglie sociali – come quelle di genere o della sostenibilità – che poi finiranno per coinvolgere il più ampio dibattito pubblico.

Non è dunque un caso che la sinergia tra la discoteca e l’ambito museale occupi oggi uno spazio di rilievo sempre maggiore. Come sottolinea Hofer, “quella di Discorivoluzione è stata la partnership più radicale capace di abbattere la nostra naturale dimensione in anni di attività culturali”.

La postazione per DJ progettata dagli studenti del Politecnico di Milano per la mostra-evento “Discorivoluzione”. Foto di Carlotta Coppo
  • Murales di Keith Haring all'interno del Palladium, New York, 1985. Foto: ©Timothy Hursley, Garvey Simon Gallery.
1. B018, Beirut Foto: courtesy of B018

Beirut non è il primo luogo che viene in mente quando si pensa al clubbing. Eppure la capitale del Libano ha un legame storico con le discoteche. Nel 1980 Ettore Sottsass Jr. vi progettò il Disco 2000, un ambiente che permetteva alla popolazione autoctona di scappare, almeno attraverso la musica e gli interni decisamente europei, alla difficile situazione sociale del paese.  Analogamente, Najil Gebran a fine decennio, con la nazione martoriata da un sanguinoso conflitto intestino, inizia a selezionare musica da uno chalet sulla spiaggia: il B018. 

1. B018, Beirut Foto: B018, Laboratorio di Progettazione dell’Architettura degli Interni, Politecnico di Milano, Diorama, realizzato in carta Fedrigoni, 2023

Nel 1998 il club si sposta sul terreno di un ex accampamento per rifugiati armeni e curdi. Qui il cugino e architetto Bernard Khoury progetta un ambiente sotterraneo, che si apre come un sarcofago nella notte rivelando uno spazio simile a un bunker, dove i tavoli in mogano ricordano bare su cui sono collocati ritratti di musicisti martiri della libertà, rose e fori di proiettili. L’invito al locale un calcinaccio, ospitato all’interno di una custodia nera traforata: un oggetto pesante nel peso specifico e nel significato simbolico, in cui design e vicende socio-politiche di una nazione si sviluppano in simbiosi sotto la bandiera della musica e della libertà. 

2. Club Judd, Tokyo Foto: Domus 487, giugno 1970

Lo status socio-politico di una nazione in un determinato periodo storico passa anche dal design. Il Giappone dei ‘60 è una paese in ascesa economica dopo la batosta della Seconda Guerra Mondiale. L’influenza della cultura Americana inizia, proprio in questi anni, a plasmare la nazione che verrà e anche le discoteche sono coinvolte in questo processo di cambiamento.  Il club si ispira, a partire dal nome, allo scultore statunitense Donald Judd di cui il proprietario del locale era grande estimatore.  Gli interni sono affidati a Shiro Kuramata, designer che a metà Sessanta incarna più di ogni altro il connubio tra avanguardia progettuale del Sol Levante e l’occidentalizzazione della nazione. In un ambiente sinuoso completamente rivestito in lastre di alluminio semi-lucido, la pista in lastre di marmo bianco fa da contraltare alla moquette in pelo nero su cui si posano sedute in plexiglass trasparente con cuscini gialli e blu. Ne consegue un ambiente che cattura l'effimero del divertimento e della rinascita giapponese post-bellica.

3. New Afrika Shrine, Lagos Foto: Carlotta Coppo. New Afrika Shrine, Laboratorio di Progettazione dell’Architettura degli Interni, Politecnico di Milano, Diorama, realizzato in carta Fedrigoni, 2023

A metà tra un luogo dal valore spirituale e politico, il New Afrika Shrine racchiude il lascito culturale di Fela Kuti al suo popolo. Nella discoteca inaugurata nel 2000 per volere dei figli del musicista Femi e Yeni Kuti la catarsi del processo collettivo è ricca di impegno sociale.  Il club nasce infatti con l’obiettivo di ridare vita allo Shrine, il locale che Kuti fondò nel 1972 durante la guerra civile nigeriana e delle cui controversie Kuti fu cantore. Proprio in quegli anni, lo Shrine offrì rifugio e lavoro a molti giovani, oltre a dedicarsi a iniziative in sostegno della sanità e dell’educazione che oggi continuano a ispirare l’operato del New Afrika Shrine.  

4. Paradise Garage, New York Foto: logo Paradise Garage

Non è solo l’eccesso votato a trasgressione a fare del Paradise Garage uno dei più significativi archetipi di discoteche nella storia. Sulla sua pista, attiva a New York tra il 1978 e il 1987, si è consolidata la figura del DJ come sacerdote di un rito laico. Non a caso Bernard Fowler, cantante dei Peech Boys, il gruppo del locale in un’intervista con The Guardian ha definito il suo DJ Larry Levan, uno dei pionieri del mixing, come “un Messia. La gente guardava in alto verso la consolle e gridava il suo nome.” Qui si sono, soprattutto, negoziati importanti diritti civili per l’America del futuro. Il Garage, o come era anche noto Gay-rage, fu rifugio per la comunità LGBTQ+ ispanica e afroamericana in una New York che stava stava d’un tratto scoprendosi vulnerabile all’AIDS, tema su cui il club fu attivo sensibilizzatore. 

5. Bassiani, Tiblisi Foto: Bassiani

Benché di recente apertura (2014) il Bassiani si è da subito affermato come uno dei principali punti di riferimento per la Techno in Europa, venendo spesso accostato al celebre Berghain di Berlino. Eppure, il club Georgiano è molto di più. Nel logo, un elmo, si traccia il fil rouge suo e della nazione con la violenza militare.  Il Bassiani rappresenta da quasi un decennio un avamposto di militanza e resistenza in un paese dalla politica conservatrice, che più volte ha cercato di soffocare l’attività della discoteca, anche attraverso arresti sommari. Come nel 2014 quando, in seguito ad un raid antidroga, l’esercito aprì il fuoco dentro il locale. Episodio seguito nel 2019 dalla sparatoria di un civile. Eppure, proprio dal Bassiani che nel maggio 2018 è partito il rave che per due giorni ha tenuto banco davanti al Palazzo del Parlamento, ponendo davanti agli occhi dell’opinione pubblica internazionale il crescente movimento sociale di protesta che a Tiblisi è legato indissolubilmente al ballo. 

Murales di Keith Haring all'interno del Palladium, Ney York, 1985

Foto: Timothy Hursley, Garvey Simon Gallery