La discoteca come sperimentazione di democrazia: l′evoluzione in 5 luoghi chiave

Andy Warhol una volta disse che lo Studio 54 era tanto una dittatura quanto una democrazia. Una recente mostra a Milano ha analizzato il ruolo della discoteca e dei suoi interni come terreno di negoziazione di diritti attraverso la storia.

La discoteca è da sempre il luogo della ricerca effimera dell’edonismo. Nell’escapismo dalla cultura dominante da esse offerto, però, si è spesso celata la molla per profondi cambiamenti sociali. 

La rivalutazione sempre più crescente del valore culturale della discoteca, specialmente sotto il profilo architettonico e progettuale, tocca oggi anche il mondo accademico.

Il tema è infatti stato al centro di “Discorivoluzione”, progetto di ricerca di 50 studenti del Laboratorio di Progettazione Interni del Politecnico di Milano e recentemente culminato in una mostra-evento in collaborazione con la storica realtà milanese di clubbing e eventi culturali Le Cannibale al PAC di Milano in occasione di MuseoCity.

L'installazione "Balliamo su tutti i dancefloor del mondo” al PAC di Milano in occasione di "Discorivoluzione". Foto: Carlotta Coppo.
L'installazione “Balliamo su tutti i dancefloor del mondo” al PAC di Milano in occasione di “Discorivoluzione”. Foto di Carlotta Coppo

“Mi piace pensare alle discoteche come territori non di conflitto, ma di negoziazione di diritti”, spiega Davide Fabio Colaci, docente di architettura e coordinatore della mostra. 

La negoziazione di cui parla Colaci sembra essere riassunta da Andy Warhol che, in riferimento allo Studio 54 di cui era avido frequentatore con la sua macchina fotografica, disse “Il segreto del successo dello Studio 54 è che è una dittatura alla porta e una democrazia in pista”.

La tensione delle sfide generazionali creano – come teorizzava già Leonardo Savioli nel suo corso inaugurato nel 1966 presso l’Università di Firenze – “spazi di coinvolgimento”, che si snodano tra arti visive, sedute di design (come quelle Gufram per il Piper Club di Torino e l’Altro Mondo di Rimini, entrambi progetti di Pietro Derossi e Giorgio Ceretti) e la ricerca di sinestesie che superano l’individuo arrivando a toccare la sfera politica. 

Haçienda, Manchester, 1994. Foto: ©Jon Shard
Haçienda, Manchester, 1994. Foto di Jon Shard

È, ancora una volta, Andy Warhol a sottolineare la discoteca come ring in cui si sfidano le dinamiche del presente in una locandina disegnata a mo’ di quelle degli incontri di pugilato per promuovere l’afterparty del settembre 1985 al Palladium di New York dell’inaugurazione della mostra sua e di Basquiat presso la Tony Shafrazi Gallery.

La discoteca emerge dunque come ecosistema del cambiamento. Ovvero come la realtà privilegiata in cui, in contesti spazio-temporali sempre diversi, si incarna lo zeitgeist. Eppure non sono, come si potrebbe pensare, solamente gli interni o i dischi suonati a raccontare le transizioni della nostra cultura, ma il dialogo scaturito dalle tensioni socio-politiche del più ampio contesto territoriale in collisione con dettagli degli outfit mostrati in pista, i progetti grafici dei flyer delle serate e le liriche delle canzoni.

In alcuni casi la discoteca si fa avamposto di resistenza di diritti politici e sessuali, come il Paradise’s Garage culla della comunità omosessuale ispanica della New York di fine anni ‘70, se non addirittura trampolino di escapismo laddove il tessuto sociale sta vivendo rivoluzioni, come nel caso del Disco 2000 progettato da Ettore Sottsass Jr. a Beirut con una pista che richiama quelle aeroportuali. Qui, i libanesi durante la guerra civile scoppiata nel 1975, potevano sentirsi come a Parigi, bevendo champagne annotava Sottsass, che non fu mai pagato per il progetto in seguito al dileguamento dei committenti.

In altri casi l’escapismo avviene sotto forma di catarsi, che la discoteca permette facendosi ora tempio (Tresor, Berlino), ora supermercato dell’edonismo e delle sostanze stupefacenti (Haçienda, Manchester). O, ancora, ambiente performativo, come il Cerebrum di New York che tra il 1968 e il 1969 pose le basi per il Living Theatre e l’esperienza degli Happening di artisti come Allan Kaprow.

“Il mondo delle discoteche è effimero. Basti pensare che l’archetipo della discoteca, ovvero lo Studio 54, tenne aperto per due soli anni," osserva Colaci per ribadire la transitorietà fisica, ma non socio-culturale, dei 18 club analizzati nella mostra.

Il van del Tresor alla Love Parade, Berlino, 1991. Foto: ©Oliver Wia, Tresor Records
Il van del Tresor alla Love Parade, Berlino, 1991. Foto di Oliver Wia, Tresor Records

La transitorietà è il fil rouge con il presente. Come riflette Marco Greco, co-fondatore di Le Cannibale assieme a Albert Hofer, “Oggi c’è una tendenza a individuare non più le mura della discoteca, ma quelle metaforiche di organizzazioni come punti di riferimento della comunità.”

Le dinamiche di consumo della musica sono cambiate in maniera sostanziale, specialmente nel dopo-Covid, ma secondo Le Cannibale lo spazio del clubbing rimane un palcoscenico dove sviluppare per primi e con naturalezza tematiche e battaglie sociali – come quelle di genere o della sostenibilità – che poi finiranno per coinvolgere il più ampio dibattito pubblico.

Non è dunque un caso che la sinergia tra la discoteca e l’ambito museale occupi oggi uno spazio di rilievo sempre maggiore. Come sottolinea Hofer, “quella di Discorivoluzione è stata la partnership più radicale capace di abbattere la nostra naturale dimensione in anni di attività culturali”.

La consolle progettata dagli studenti del Politecnico di Milano per la mostra-evento "Discorivoluzione". Foto: Carlotta Coppo.
La postazione per DJ progettata dagli studenti del Politecnico di Milano per la mostra-evento “Discorivoluzione”. Foto di Carlotta Coppo
Immagine di apertura:
Murales di Keith Haring all'interno del Palladium, New York, 1985. Foto: ©Timothy Hursley, Garvey Simon Gallery.

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