“I negozi di moda sono anche un fenomeno che riguarda l’ambito del progetto e del costume”, anzi sono “protagonisti assoluti del fenomeno”, dove “gli abiti ne costituiscono un aspetto ma non la totalità”, scriveva Domus 659 nel marzo 1985, dunque all’apice della Milano da Bere e della rampante rinascita della moda italiana nel mondo, prima di lanciarsi in una disamina di diverse boutique d’autore per brand quali Mugler, Magli e Commes des Garçons.
Il rapporto simbiotico tra architettura, design e haute couture però non è stato un affair effimero come la stagione della moda milanese del decennio breve, ma un percorso intenso e affiatato. Negli anni, a partire dalla rinascita economica del secondo dopoguerra, la boutique ha attraversato una serie di trasformazioni dettate dal mutamento delle dinamiche sociali, di cui si è sempre fatta portavoce. Questo è stato reso possibile dal suo dialogo con discipline come design e architettura, i cui requisiti progettuali hanno saputo leggere, al pari dei capi in vendita, le evoluzioni dello zeitgeist.
A innescare questo processo sin dagli anni Sessanta, secondo Domus 460, è stato il ribaltamento della prospettiva e dei ruoli: il designer si fa architetto, e l’architetto si erge a stilista di ambienti, “facendo dell’interior design una mimesi dello stile della stagione”. Iniziatore di questa rivoluzione è stato, sempre secondo la testata diretta da Gio Ponti, Paco Rabanne definito “architetto di donne come armi”, per la sua volontà di emancipare il corpo femminile tramite il “dress design”.
Se a inizio ‘60 la boutique è un ambiente intimo ed essenziale, votato alle necessità pragmatiche di un'industria della moda a porte chiuse, una volta scavallata la metà del decennio essa diventa infatti ambiente pop e comunitario, votato al coinvolgimento di un pubblico più giovane e eterogeneo.
Lo mette in luce un progetto del 1960 dell’architetto Paolo Chessa per una sala sfilate di una sartoria milanese (Domus 372), dove l’alta moda, ancora distante dal pret a porter, riflette la sua esclusività in un interno legato all’attenzione del mid-century verso palette e costruttivismo mondrianesco, con divani rivestiti in stoffe di colori primari e pareti in pannelli di abete.
Boutique o discoteca?
La maturazione della neonata figura del teenager a fulcro della società dei consumi, unita al fermento controculturale giovanile, dalla seconda metà dei ‘60 dà vita, come mai in precedenza, a una sinergia privilegiata tra vari ambiti delle arti. Diventa così quasi impossibile operare una distinzione tra gli spazi pensati per il ballo e quelli per la moda. Si veda il progetto dei Superstudio per la discoteca fiorentina Mach 2 (Domus 473) comprensiva di un ambiente boutique, idea prevista anche dal progetto dell’Atelier d'Urbanisme et d’Architecture per il Theatre de la Ville di Parigi (Domus 475). Viceversa, i rivestimenti per superfici in pannelli metallici Metalsadi per la discoteca radicale Altro Mondo Studios di Rimini progettata da Pietro Derossi e Giorgio Ceretti richiamano quelli di una boutique per scarpe a Milano dell’architetto Sergio Asti (Domus 467).
Di queste boutique viene messo in luce l’ambiente unico e modulare – come per il Follies Shop di Saluzzo, Cuneo, di Lorenzo Prando e Riccardo Rosso (Domus 539) –, che ricorda quelli delle discoteche radicali o “divertimentifici” di Pietro Derossi e Giorgio Ceretti che Domus 458 raccontava nel gennaio 1968.
“Né il Piper-pluriclub di Torino, né l'Altro Mondo di Rimini sono veramente degli ambienti, cioè strutture rigide che impongono il loro stile, l’atmosfera tipica e la clientela fissa; sono piuttosto degli enormi contenitori muniti delle loro attrezzature per costruire di volta in volta un ambiente, come quelle scatole piene di pezzi da comporre e con cui giocavamo a fare l’architetto.”
Di questi “spazi di alluminio e nichel” sono in primis ghiotti artisti e designer, i veri elementi di congiunzione tra boutique e club. Si guardi alla “macchina luminosa” del Piper di Torino progettata da Bruno Munari e, nello stesso club, alla performance di Gerard Malanga e de Le Stelle di Mario Schifano che “li eccitava – le Stelle e il pubblico” con scariche di diapositive, films e lampade stroboscopiche.
Vestire la controcultura
D’altronde anche in Italia il club romano Piper inaugura il suo Piper Market, mentre l’Equipe 84 si lancia (addirittura anticipando i Fab4) in un bazaar di abbigliamento all’interno di una vecchia drogheria di Via Solferino a Milano, conservandone la facciata d’epoca. Inutile dire che l’avventura del complesso emiliano fu effimera quanto quella dei colleghi di Liverpool, con l’insegna a fare da sibillina premonitrice dei turbolenti scandali legati al possesso di sostanze stupefacenti che avrebbero, da lì a poco, coinvolto il batterista Alfio Cantarella.
A Genova, il negozio di abbigliamento per bambini Le Zanzare (Domus 441) progettato da Gianfranco Frattini (anche autore di un “textile shop” in Via Bagutta a Milano, Domus 465), sembra incarnare – più nel nome che nel progetto – lo spirito di vivace contestazione che anticipa il Sessantotto, facendo eco alla testata del Liceo Parini che proprio pochi mesi prima, nel febbraio 1966, aveva portato a uno scandalo nazionale. O, chissà, un riferimento dettato dal successo del film per adolescenti Rita La Zanzara, con Rita Pavone e Giancarlo Giannini, che già si era lasciato ispirare nel titolo dai fatti di cronaca dell’istituto superiore milanese.
A sottolineare il ruolo della boutique nel più ampio quadro della controcultura italiana dei ‘60 e primi ‘70 è il non trascurabile numero di progetti a cui si dedicano i gruppi di architettura radicale in parallelo al loro lavoro sulle discoteche. Nel 1972 a Milano Nanda Vigo si dedica all'allestimento della gioielleria King Kong (Domus 506), a Torino lo Studio 65 due anni più tardi realizza il negozio di articoli in pelle Skin Up (Domus 537), mentre sul territorio toscano gli UFO mettono in luce il fil rouge concettuale della Versilia yè-yè con l’underground europeo concependo a Viareggio la boutique di chiara matrice londinese Mago di Oz (1969) e Saga De Xam a Firenze (1969), invece ispirata dall’omonimo fumetto di fantascienza francese.
O ancora, la boutique Milk Boy (marchio tuttora esistente) progettata nel 1974 a Tokyo da Shiro Kuramata (Domus 540), che sia nella scelta degli interni total white che del nome sembra strizzare l’occhio ad Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, all'epoca appena uscito nelle sale cinematografiche.
La moda è un’illusione spaziale
A fare da fil rouge tra molte di queste boutique è la ricerca dell’illusorietà degli spazi, come a inseguire la volontà di replicare anche nella progettazione degli interni l’illusione e l’effimero propri della moda. Se a inizio ‘60 questo risultato veniva ottenuto modulando gli spazi come nella sartoria milanese di Chessa, più avanti sono superfici specchiate prese proprio in prestito dall’architettura dell’intrattenimento a portare a compimento questa missione, come nella boutique milanese di Valentino a firma di Aldo Jacober con la collaborazione di Cristina Annoni e Fiorella Butti (Domus 489).
Illusorietà che è al centro anche di Box, a cura di Ubald Klug: un negozio di abbigliamento a Berna decisamente Beat e che si sviluppa sottoterra, a sottolineare la rinnovata dimensione underground e controculturale della moda. Analogamente, la boutique Altre Cose, ancora un progetto di Jacober, qui assieme a Ugo La Pietra e Paolo Rizzatto, prevede dei grandi tubi cilindrici trasparenti calati dal soffitto come espositori ed è collegata mediante un’ascensore, anch’essa trasparente, al sottostante night-club Bang Bang, dando vita a un “ambiente-strumento in cui gli effetti ottici e sonori e i movimenti elettronici delle parti trasformano il funzionamento in gioco”.
È però Richard Carr a chiudere idealmente e con largo anticipo il decennio in questione su Domus 480 mettendone in dubbio la praticità a lungo termine di soluzioni progettuali così radicali. “All'inizio nessuno si poneva il problema di dover acquistare abiti in ambienti bui, con soffitti neri e pareti viola, o si preoccupava se il negozio era così riservato da non poter vederne l'interno. Ma ora che la moda non è più confinata a Kings Road, ma può essere acquistata in qualsiasi buon grande magazzino, questo non è più vero, e la scena, per così dire, sta perdendo il suo fascino”.
Immagine di apertura: Boutique di calzature, Sergio Asti, Milano, 1968. Domus 467, ottobre 1968.