Tra i tatuaggi tipici del carcere, ce n'è uno particolarmente legato al tempo: un orologio senza lancette, chiamato “doing time”, espressione colloquiale per indicare il tempo speso in prigione.
Sara Ferrari: Doing Time
Invitata dalla galleria Artwo, che lavora con i detenuti della Casa Circondariale di Rebibbia, Sara Ferrari ha realizzato un orologio con gli scarti della lavorazione del pellame, per dare la possibilità ai detenuti di esprimere la propria creatività.

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- 17 ottobre 2013
- Roma
In genere questo tatuaggio rappresenta una lunga pena ma può anche riferirsi alla diversa percezione del tempo di una persona condannata a rimanere rinchiusa per anni.

Spesso un tatuaggio fatto in cella è anche espressione e voglia di mantenere un contatto con l'esterno, anche se invisibile: lo scrivere il nome del proprio figlio o della propria fidanzata è come se ne rafforzasse il legame e creasse speranza di ri–unione. Il senso del tatuaggio in prigione, però, non si ferma solo a questo: i tatuaggi vengono fatti per ammazzare il tempo. Il concentrarsi nel dolore aiuta a non pensare e a portare la mente al di fuori, attraverso la concentrazione “nel fare”.

La maggior parte dei carcerati, però, appena fuori, si pente di aver marchiato la propria pelle in quel modo. Attraverso questo progetto Sara Ferrari intende dare la possibilità ai detenuti di esprimere la loro creatività marcando una pelle diversa, da usare come piccione viaggiatore per portare i loro messaggi all'esterno, creando una sorta di contatto fra il dentro e il fuori.
La nuova superficie da decorare è rappresentata da scarti di lavorazione di pellame su cui i detenuti potranno esprimere i loro pensieri tatuando messaggi che diventeranno decorazione di un elemento d'arredo utile più fuori che dentro: un orologio. In questo modo il loro “doing time” acquisirà più valore, e si trasformerà da “tempo da scontare” a tempo per fare e per pensare.
I cinque punti, conosciuti anche come i cinque punti della malavita, simboleggiano l’essere stati in carcere. I quattro punti esterni rappresentano le mura, mentre il punto centrale raffigura il detenuto. I materiali utilizzati sono scarti della lavorazione del pellame, un tamburello in legno per ricamo e un semplice ingranaggio analogico e lancette. Ogni pezzo sarà unico e rappresenterà disegni, frasi e pensieri dei detenuti del carcere di Rebibbia a Roma, comparto G8, lunga pena.
Il progetto è stato commissionato a Sara Ferrari da Artwo, galleria romana che produce oggetti di design ideati da artisti e designer contemporanei basandosi sul concetto di riuso e riciclo. Gli oggetti Artwo sono prodotti in strutture di detenzione e recupero di persone socialmente svantaggiate, con un percorso che prevede un rapporto diretto fra artista e detenuti affinché si insegni loro la lavorazione del materiale e la realizzazione del progetto. Nel 2007 Artwo ha aperto un laboratorio attrezzato all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia, Nuovo complesso di Roma.
Il progetto di Sara Ferrari sarà presentato alla Triennale di Milano, nella mostra "Recupero", a cura di Valia Barriello, insieme a una selezione di progetti che racconta l’esperienza dell’associazione Artwo e che negli anni ha coinvolto diversi designer: Alessandro Mendini, Paolo Ulian, Alessandro Guerriero, Massimiliano Adami, Ivan Barlafante, Stefano Canto, Riccardo Dalisi, Fabio Della Ratta, Carlo De Meo, Francesco Faccin, Sara Ferrari, Duilio Forte, Michele Giangrande, Andrea Gianni, Francesco Graci, Yonel Hidalgo, Lanzavecchia + Wai.
29 ottobre – 15 dicembre 2013
Recupero. Artwo: dentro e fuori le mura
Triennale Design Museum
viale Alemagna 6, Milano