Questo articolo è stato pubblicato su Domus 953, dicembre 2011
C'era una volta il tubo delle patatine Pringles che, sin dall'inizio degli anni Duemila, è stato usato dagli hacker in giro per il mondo (o per lo meno in quelle parti del mondo dove le grandi multinazionali avevano reso le Pringles accessibili) per creare antenne a guida d'onda che occupano porzioni di spettro elettromagnetico non controllate da licenze private o regolamentazioni governative. In altre parole, le antenne costruite con i tubi delle Pringles hanno consentito un accesso alternativo a internet che, fra i vari usi possibili, i 'pirati informatici' hanno utilizzato qualche anno fa a San Paolo, in Brasile, per cancellare dagli archivi della polizia le generalità dei loro 'colleghi', arrestati per aver ficcato il naso
in dati informatici che non li riguardavano.
Questo è solo uno dei molti esempi di accesso a internet fai-da-te. La politica e le alte scienze osservano questo tipo di sperimentazioni dal basso con crescente attenzione. Tra le istituzioni che hanno dimostrato particolare interesse nelle potenzialità dello sviluppo di modalità informali di accesso alla rete c'è la National Science Foundation (NSF). NSF è l'agenzia federale del Congresso degli Stati Uniti che finanzia il 20% della ricerca scientifica sviluppata in college e università americane e che, dalla sua nascita negli anni Cinquanta, ha la missione di preservare la leadership degli Stati Uniti nel campo dell'avanzamento delle scienze sostenendo pionieri capaci di scoprire nuove frontiere della conoscenza.
Le sottili maglie della rete
FabLab, un progetto umanitario interessante e controverso nato tra le montagne afgane e finanziato dal governo americano, solleva il tema della strumentalizzazione della ricerca scientifica.
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- Francesca Recchia
- 27 dicembre 2011
- Jalalabad
Nel 2009, la NSF ha finanziato FabLab, un gruppo di ricerca affiliato al MIT, per l'implementazione di una rete di FabFi a Jalalabad, in Afghanistan. FabFi è un sistema di trasmissione e ricezione di onde radio che permette la creazione di reti di comunicazione alternative e affidabili anche in condizioni ambientali (e geopolitiche) avverse. L'idea di FabLab è quella di sviluppare strumenti a basso costo realizzati con materiali disponibili localmente e permettere un sistema di accesso al web alternativo a comunità isolate per ragioni politiche o geografiche. La missione ultima del laboratorio è quella di promuovere un percorso di alfabetizzazione che permetta lo sviluppo a livello locale di capitale sociale e tecnologico.
In una recensione sul FabFi apparsa sul New York Times, James Glanz e John Markoff riflettono sulla possibile dietrologia del progetto: le ragioni umanitarie di empowerment di comunità svantaggiate forniscono un lasciapassare al governo americano per offrire strumenti di comunicazione e accesso a internet a gruppi insorgenti che, dalle famose montagne impervie dell'Afghanistan, si oppongono ai talebani in sostegno alla faticosa missione di costruzione/esportazione della democrazia. FabLab risponde mostrando cifre e bilanci finanziari e misurando, fra l'altro, il successo del progetto con il fatto che molti dei partecipanti afghani, studenti al tempo della prima implementazione del FabFi, sono adesso imprenditori tecnologici autonomi e spesso consulenti ben pagati delle forze ISAF. La ricerca scientifica, si sa, non è mai ingenua. Può forse permetterselo ai tempi della crisi? E la verità della polemica (probabilmente) si trova nel mezzo. Francesca Recchia